Si metterà male per la Nutella? Scampato il pericolo di messa al bando da parte del Parlamento europeo, ora la dieta a base di crema alla nocciola e cacao potrebbe finire in cattiva luce per “colpa” di uno spot. Sì, quello del cuoco della Nazionale, che dal 2007  decanta le qualità della ghiottoneria come componente fondamentale della colazione per i giocatori della squadra di Lippi. Formazione messa oggi alla porta del Mondiale sudafricano. Mai passasse nella mente di qualcuno che, avendo giocato di pomeriggio, i nostri campioni si siano siano tolta la Nutella dallo stomaco solo verso gli ultimi 10 minuti. Ci vorrebbero frotte di esperti di marketing per raddrizzar la barca. Forse ai piani alti della Ferrero non se ne curano, altro bolle in pentola: c’è infatti aria di guerra del cioccolato in Cina, tantissimi i potenziali consumatori su cui scommettere. Ma vatti a fidare degli scommettitori: i bookmakers davano l’Italia vittoriosa al primo turno. E abbiamo visto come è finita: a rotoli.

Quanto a me, sono un autentico zero tituli quanto a calcio. Non ho il minimo titolo, insomma, per parlarne. Troppa indifferenza, tanta ignoranza. Chissà – magari – pure un po’ di  “disprezzo” verso i 22 ricconi in calzoncini che ogni domenica scaldano mezza Oenisola. Nello scandalo più totale posso perfino confessare pubblicamente di non avere pay per view o altre diavolerie per seguire le gesta dei vari Balotelli, Cassano o De Rossi.  Ma di fronte a un evento storico – come l’Italia ultima nel girone eliminatorio al Mondiale, quello in Sudafrica – scommetto che qualcuno mi tirerà per i (pochi) capelli a parlar di pallone. Ed allora ecco che devo scavare nei ricordi. Non quello di Gianni Rivera, visto all’Olimpico quando ero bambino nell’unica partita di serie A cui io abbia mai assistito dal vivo. In quelli scritti – diciamo così – nei libri di storia. Anche perché un campionato tra “Nazionali” è qualcosa di totalmente anacronistico. Roba da risorgimentali. Sarà per questo che è inviso ai Leghisti?

Le cose però stanno in termini meno idealistici.  Vuoi infatti un ritorno immediato ai tuoi investimenti nel gioco del calcio? Non spendi certo nel vivaio/mercato italiano come manager di club perché farlo richiederebbe tempo, applicazione, denaro. Ma prendi quel che hai già pronti sulla piazza internazionale. Inutile arrabbiarsi però con il campionato “più bello del mondo”, perché non è più il campionato italiano. E’ un’altra cosa. E’ un grande affare economico, dove le frontiere o le nazionalità, pure quelle presunte “padane”, contano davvero ben poco. L’ossatura della Nazionale italiana – quella vincente –  una volta era o il grande Torino, quello scomparso sulla collina di Superga, o la Juve degli scudetti, o il Milan star internazionale e così via. Di quattro anni in quattro anni. Adesso sfido chiunque a fare lo stesso con l’Inter acchiappatutto. Tutti stranieri, tranne uno. Non è questione di nostalgia nazionalista o, peggio, razzista: è il Mondiale fuori dal tempo.

Se poi guardo al tabellone sudafricano, vedo che le cosiddette grandi squadre europee, quelle dei grandi campionati a suon di milioni, “soffrono” o – al nostro pari, come la Francia – se ne tornano a casa con la coda tra le gambe. Chi resta a galla o fa l’outsider in una sfida tra “nazionalismi”, quasi un torneo da primi del ‘900, in un mondo globalizzato dagli affari? Oltre a qualche “blasonata”, fuori del Vecchio Continente, quelli che non hanno soldi da spendere per commerciare in stelle dello scarpino. A confermare questa mia impressione da profano, c’è l’amico Luca Nesta. Grande appassionato di calcio e, soprattutto, di economia, che poi è il suo mestiere.

Partiamo da una squadra europea che ha superato, pur soffrendo, la fase iniziale di questo Mondiale anacronistico. «Guarda la Spagna  – mi dice – Il Barça, il Barcellona, è il top team da 2 anni ed ha 8/12 di titolari tirati su dalle giovanili, la cosiddetta cantera. In Germania spendono meno di noi, ma i club fatturano di più. In Inghilterra ha vinto il Chelsea, che ha il mercato bloccato da 3 anni per motivi di giustizia sportiva». E la Francia? I cugini? «Il campionato è molto mediocre – aggiunge Luca – ma non ne hanno pochi di stranieri. Infatti i nazionali francesi giocano tutti all’estero. Gallas, Malouda in Inghilterra, Henry in Spagna». In Italia i vivai dei club – ne parlavo l’altro giorno dal medico con una mamma di un talentuoso ragazzino – mi sembrano un affare nel gestirli, non nel cavarne campioni. Per entrare “in squadra” – infatti – serve il “calcio”. Ma non quello al pallone.

Stefan Szymanski, prof di Economia alla Cass Business School dell’Università di Londra e Simon Kuper, giornalista di soccer per New York Times e Financial Times hanno dato alle stampe nel 2009 – tradotto in Italia un mesetto fa, giusto in tempo per vender copie in vista del torneo sudafricano – un volumetto intitolato Calcionomica. In pratica un matrimonio tra indicatori economici e calcistici. Avevano messo a punto i due esperti una formula che combina dati demografici, prodotto interno lordo, esperienza di gioco e “fattore campo”. Ne è uscito un pronostico su chi avrebbe vinto i Mondiali. La risposta? Brasile, ovviamente. Arrivato in finale contro la Serbia. Ma sarà perché hanno usato come criterio il Pil – indicatore che più inutile non si può – l’Italia si sarebbe stata fermata dalla Spagna. Quando? Ai quarti di finale. Vallo a capire, il calcio.