Foto di Darren HesterThe new currency? La nuova valuta? Secondo Viviane Reding, commissario Ue, è sempre più costituita dalle informazioni personali. Nel sistema globale delle reti, dell’economia della conoscenza e del “virtuale” in generale, il tema del valore – e delle relative unità di scambio – appassiona da tempo i cultori di mondi virtuali. In quell’ambito si affrontano due aspetti, talora confondendoli. Da una parte le monete virtuali, come i Linden dollar in Second Life (scambiati ad un tasso pressoché fisso con il denaro “reale” e forse “stampati” al bisogno), dall’altra il valore prodotto all’interno dei virtual worlds o degli ambienti online in generale e dei suoi riflessi “fuori” da quello che Edward Castronova ha chiamato il “cerchio quasi magico”. Quel valore lì, sempre secondo Castronova, è legato al fattore tempo speso all’interno degli ambienti virtuali. Discorso che si potrebbe tranquillamente ripetere, ad esempio, a proposito di Facebook. Dove c’è chi ha pensato ad una sindacalizzazione degli utenti.

La Reding, nel suo video messaggio, parla di dati personali come moneta di scambio. Sembra voler alludere, con questo concetto, al prezzo – quindi al “valore” – da pagare per accedere ai servizi gratuiti del web. Un bene, quello delle informazioni “private”, che può essere poi oggetto di transazioni successive tra aziende per la profilatura di clienti (potenziali, vale a dire virtuali, o immanenti). Insomma, il do ut des passa per la digitalizzazione di dati, riferibili all’utente, e la fruizione – a suo vantaggio – di una “utilità” nello spazio esteso della realtà rappresentato dal web. Il messaggio che la “ministro” Ue manda è, apparentemente, semplice: le informazioni su di te non possono essere usate senza il tuo preventivo consenso. Ma, forse, è fuori strada.

In teoria ci sarebbero le “condizioni di servizio”, le informative sulla privacy e via elencando gli atti da sottoscrivere, che ovviano a questa preoccupazione comunitaria. Ameni documenti che nessuno, o quasi, legge prima di accettare l’attivazione di un account per accedere a un servizio: sia esso un social network, una casella di email o un mondo virtuale. L’essere in rete implica nativamente l’identificabilità – sin dall’attribuzione di un IP –  e la tracciabilità di chi accede al network. Quindi se denaro è, questo è considerato di ben poco valore da chi la possiede.

Diversamente se i servizi si bloccano, se le piattaforme non sono utilizzabili, chi le frequenta si altera. Evidente segno che attribuisce all’esperienza di uso, specie se social, un valore elevato: il suo agire è monitorato – vedi, ad esempio, la logica del PageRank o la funzione di un cookie – e questo rappresenta il prodotto che egli stesso produce/consuma e, insieme, il valore che spende per poterne fruire. La moltiplicabilità del digitale permette che tutto ciò possa essere riprodotto teoricamente all’infinito, senza spese apparenti, e – volendo – accessibile “liberamente” agli stessi utenti (basti pensare alla tracciabilità tra amici che consentono alcuni social network). Gli usi possono essere leciti, così come illeciti. A prescindere.

La costituzione materiale degli ambienti online

Il punto – parlando di libertà degli ambienti sociali online, quelli dove maggiormente ci si autorappresenta nella versione con cui ci si vorrebbe mostrare – sta nei Terms of service (Tos). Infatti, non è tanto la profilatura demografica che interessa, quanto il comportamento degli utenti. E sull’uso che se ne fa, sulla sostanziale dittatura di quella che nei mondi virtuali è chiamata la code authority, l’autorità che detiene i codici di programmazione, i privilegi di amministrazione e il bottone di acceso/spento dei server. In Facebook (fb) è appena nato un “sindacato” degli iscritti. Le finalità programmatiche: «Bloccare la chiusura immotivata di account e la censura, impedire la cancellazione arbitraria da parte di fb di link, immagini, note, funzioni. Rendere trasparenti le regole di fb». Inutile dire che le mobilitazioni interne agli ambienti virtuali a carattere sociale non sono una novità: la rivolta contro le tasse interne (la Tax Revolt del 2003) è, ad esempio, passata alla storia di Second Life. Questo mondo virtuale ha addirittura conosciuto il terrorismo interno: un esercito di ribelli ha lottato contro l’onnipotenza dei proprietari della piattaforma a 3D, i Linden Lab.

Quel che sfugge ai più è che accedendo ad un mondo sociale online – sia esso un social network, Gmail o un virtual world – si accetta di entrare in un regno dove, sottoscritto il patto sociale – i “famigerati” Tos – hai pochi strumenti giuridici, né giudici alla mano (spesso si rinvia ad arbitrati nei paesi sede delle aziende) per rivendicare diritti cui hai rinunciato a cuor leggero o con meditata consapevolezza. Non farlo significherebbe escludersi dalla socialità virtuale. Ma – come presto hanno imparato i gestori degli ambienti virtuali online – sono le mobilitazioni (come dimostrato da parecchi casi di personaggi pubblici cancellati e poi riaccreditati in Facebook)  l’unico strumento di pressione o resistenza in grado di incidere sulle scelte aziendali, così da farle recedere da intenti impopolari. La ragione? Probabilmente il timore che con il passaparola virale possano decidere di abbandonare quel “mondo” inospitale, facendogli perdere valore. Valore che è più nell’uso della piattaforma in rete, che non nei dati personali.