Un partito italiano ricorre al crowdsourcing per cambiare nome. L’Udc verserà infatti 5 mila dollari a chi creerà il nuovo nome del nascente “Partito della Nazione”.
Un partito italiano ricorre al crowdsourcing per cambiare nome. L’Udc verserà infatti 5 mila dollari a chi creerà il nuovo nome del nascente “Partito della Nazione”.
A volte ritornano. Si “ripropongono” come un peperone maldigerito, anche a distanza di un anno. Sono le idee di chi della rete forse ha capito poco, ma ha compreso tutto quel che di essa gli può dar fastidio. E così basta un comma – il 29 dell’articolo 1 del disegno di legge sulle intercettazioni – per tentare di dissuadere i semplici cittadini dall’esercitare un proprio diritto, quello d’opinione. Diritto fondamentalissimo, checché se ne dica invece a proposito del rango della libertà di stampa. Non scomodo qui dichiarazioni universali o Costituzioni americane. Mi affido solo al buonsenso.
«Diffamare – sostiene oggi Filippo Facci, su Libero, nel ripetere come fa da un anno che “internet non è un porto franco” – non è vietato ai giornalisti, è vietato e basta, ed è vietato su un giornale come su un murale o al bar. Ergo, è vietato in rete». Infatti. Il giornalista è querelabile, il cittadino è parimenti querelabile. Se offende. Quella, però, è una norma penale, che vale nel mondo fisico come in quello virtuale. Altra cosa è il presupposto per chiedere una rettifica: ci vuole molto meno. Basta una notizia inesatta (ed il Sabatini Colletti conferma), mica c’è bisogno di aver offeso qualcuno, per dover “rettificare”. Dover pagare 12 mila euro se non si ottempera in 48 ore, dando la medesima evidenza alla correzione rispetto al post sul proprio blog, è obiettivamente una stretta. Niente più clic sul pulsante condividi “a cuor leggero” o retweet tanto perché ci piacciono. Certo, si può star tranquilli se si è scrupolosi in ossequio al motto “male non fare, paura non avere”. Ma un freno anche al più onesto e scrupoloso viene dato. La libertà resta, ma un po’ meno.
Nell’immenso disordine che regna nella Babele della mia biblioteca domestica si sono creati, stamane, due vuoti che attendono di esser colmati. Il primo è per un testo di David Weinberger, uno degli autori dell’ipercitato Cluetrain Manifesto (qui in italiano), quello dei mercati sono conversazioni, per intenderci. Si intitola “Elogio del disordine” (Everything Is Miscellaneous, nella versione inglese) ed in 365 pagine promette di svelare la potenza del nuovo disordine digitale. Una serie di argomentazioni sul “nuovo ordine dell’ordine” che fa il paio, per contrasto, con l’altro posto vuoto sulla mia libreria: “La vertigine della lista” di Umberto Eco (la recensione di Apogeo). Li ho già messi tra i desiderata su Anobii e appena terminato l’ultimo libro che sto leggendo, li affronterò. Anche se non so, ovviamente, in quale ordine.
La lista è ricerca di un criterio per fare “ordine”, lo dice pure il risvolto di copertina del volume a firma del semiologo alessandrino. Il tag, del quale, invece, argomenta Weinberger a proposito di disordine (e non senza critiche) appare un metodo per la definizione di n criteri. L’etichetta, benché possa sembrare un atto minimo e residuale dello stare connessi, ha tanto appassionato pure Derrick De Kerckhove: «Il tag è il messaggio». Per non dire di Roberto Maragliano, che ne ha fatto un esperimento tutto italiano dove l’emersione della lista o, meglio, della non gerarchia di una nuvola di etichette è affidata non solo al singolo, ma anche alla cooperazione degli altri: ThinkTag. D’altronde questa smania di “etichettare”, di taggare, senza una tassonomia predefinita – così, pragmaticamente e senza un’astrazione classificatoria preventiva (e un po’ velleitariamente platonica), può rappresentare l’unico possibile fil rouge nella selva delle connessioni che (co)estiste nel web ormai tracimato nella vita quotidiana. Basti, come test embroniale, il progetto Semapedia e a quanti altri possono seguirne l’esempio.
Caotico esistenziale accumulo oggetti, ritagli e pubblicazioni che lì per lì catturano il mio interesse in vista di un uso successivo. Uso post-it gialli come segnalibro, impiastro a matita i bordi bianchi dei libri e fotocopio quel che posso. Tutti metodi collaudati, direi da decenni. Ma al momento del bisogno non riesco ad aver ricordo di tutti e maledico il non averli taggati in un qualche database. Insomma, vorrei tanto “etichettare” la realtà. Ho perfino trovato un applicativo Linux per farlo: ai pigri e i tradizionali(sti) offre le classiche collezioni, ai disordinati di buttar dentro il database e appiccicarci qualche cartellino di riconoscimento. Tempo fa trovai illustrato in un catalogo uno scanner che grazie ad etichette RFID ritrovava documenti in mucchi informi di carte. Inutile dire che mi sono perso il catalogo.
Faceva satira. Ma il giornalista oggetto della battuta ha scoperto l’epiteto, grazie a Google. Offeso, ha querelato il blogger. E pure il motore di ricerca: avrebbe consentito di leggere in maniera rapida ed automatica l’articolo oggetto della denuncia. Il Tribunale di Ferrara, il 9 giugno, ha però assolto l’autore «per avere commesso il fatto, obbiettivamente diffamatorio, nell’esercizio del fondamentale e in concreto prevalente diritto di esercizio della libertà di critica e di satira politica».
Il magistrato ha anzi sottolineato il ricorso all’information literacy – pur senza chiamarla così – del blogger: ha scavato, verificato, si è documentato. Quindi, dopo lo studio, ha reso pubblico con un click il suo post. Certo è che, se il contributo non fosse stato linkato da altri e indicizzato dagli spider dei motori di ricerca, la presunta offesa non sarebbe stata vista da nessuno (e, quindi, trattandosi di reato di “evento” niente diffamazione). O dai soli aficionados di quel blog. Ma, per quella vicenda, sono stati letteralmente chiamati in causa anche 841 siti, tanti quanti ne ha contati il giornalista. Effetto del copia & incolla, tipico della rete.
Il meccanismo è noto: pur volendo “rimediare” bisogna inseguire siti, profili di Facebook, magari pure il peer to peer. Un fenomeno di propagazione che ha indotto addirittura uno studio legale a chiedere a ByoBlu di rettificare un post, ritenuto “offensivo” da un suo cliente, sulle pagine web che lo avevano ripreso. Paradossale, oltre che praticamente impossibile.
C’è il sole è un racconto dalla trincea abruzzese. Toccante il passaggio sulla perdita di identità: la nonna, il papà, l’uscire da quella porta che oggi non ci sono più. Ed una voce fuori dal coro, di quelle che ancora i vari potenti – che vorrebbero solo cronache emozionanti e non interrogativi alla Santoro (che in genere come giornalista sopporto poco o niente) – non possono pretendere stiano zitte. Da leggere qui.