Dai persuasori occulti agli ascoltatori occulti. La pubblicità cambia. O, quanto meno, sembra essere cambiata così. A fine anni ’50 Vance Packard aveva denunciato i meccanismi nascosti dell’advertsing. Oggi, salvo esser presi per complottisti, ci si convince che magari è una banale coincidenza. Ma la pubblicità ci ascolta? Anzi, il telefono ci spia?

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La pubblicità ti sente

Durante una cena con un amico parlavamo di slogan e idee. Materiale che magari avrebbe fatto gola a qualche copywriter a corto di creatività o, semplicemente, senza scrupoli. «Certe frasi andrebbero depositate. Ne andrebbe difesa la proprietà intellettuale per evitare che siano derubate e sfruttate da altri» si diceva.

«Ci vorrebbe un esperto che consigli come depositare marchi e slogan». La conversazione a tavola, alla quale erano presenti solo i nostri cellulari, si era chiusa così. Al mattino dopo la mia preghiera quotidiana: giornali online e social (vedi Censis 2018). Facebook, senza neanche troppi pudori, mi offre la pubblicità di una società di servizi. Titolo: “Registra e proteggi il tuo marchio in sole 24 ore”. A parte la mossa furbetta di usare un titolo che ai motori di ricerca avrebbe potuto suonare equivocabile con quello di un noto giornale economico finanziario, la pubblicità centrava un bisogno espresso durante una conversazione.

Non ci volevo credere. Ma era così. Nulla e nessuno aveva potuto suggerire al sistema di inserzioni della società di Zuckerberg un mio potenziale interesse. Neanche i cookies di Google o di qualche altro motore di ricerca: non avevo mai cercato nulla su marchi e depositi. Era come se – anzi neanche se – il cellulare avesse ascoltato le nostre conversazioni. Facebook ha già giurato e spergiurato che non è vero che il telefono ci spia.

Vai in Comune

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Ho sempre detestato i complottisti. Pure quelli che si agitano per presunti Grandi Fratelli o Grandi Vecchi. Ma stavolta mi ha preso male.  Avevo appena fissato un appuntamento per un apertitivo con un amico. Io con l’ iPhone, lui con un Android. «Ci vediamo tra un quarto d’ora». «Parcheggio un attimo, sistemo un paio di cose e ti raggiungo». Questo lo scambio al telefono, che era stato preceduto – come capita – da una chat via Whatsapp. Senza fissare il luogo. Risalgo in auto e mi metto in marcia.

Le mappe di Apple solerti come al solito mi notificano – senza che io lo abbia chiesto loro – il percorso, il tempo e il traffico. Capita con le mete abituali:  al mattino verso il lavoro o, la sera, verso casa. Quello che però vedo stavolta come destinazione sul display del mio smartphone mi lascia basito: “Comune di” seguito dal nome della città. Cosa c’era di sconvolgente? Che il percorso portava al municipio di quella cittadina di cui il mio amico è stato per anni amministratore. Un database poco aggiornato, et voilà il suggerimento smart rivela che davvero il telefono ci spia? Siamo sotto un Panopticon e chi ci guarda sono i colossi dell’informatica?

Il telefono ci spia, gettarlo?

Un Motorola StarTAC

Un esperto di sicurezza mi ha rivelato, oltre un anno fa, che i dipendenti di un’organizzazione governativa straniera della quale fa parte non possono introdurre cellulari sul luogo di lavoro. Neanche i vecchi Tacs, gli antenati degli smartphone. Che una periferica sia tracciabile anche solo per il fatto di entrare in una “cella” wireless della rete telefonica è risaputo. Ma non “ascoltarci”.

Secondo Wikileaks, però, è esattamente quel vorrebbe fare la Cia. E che – secondo gli americani – quanto già farebbero i cinesi con i loro cellulari economici e diffusi: il telefono ci spia (solo se è cinese?). Lo scandalo Lenovo sembrerebbe confermarlo. Ma non è neppure una grossa novità che quei pc cinesi non siano il massimo dell’affidabilità.

Che però i nostri telefonini ci spiino è diventato anche oggetto di una ricerca della Northeastern University. E la risposta è che non ci spiano quando parliamo. In compenso – dopo aver controllato 17 mila app Android – è risultato che alcune di esse salvano screenshot e video di ciò che accade sul display. E lo inviano ad altri. In compenso, anche di recente, pare che siano le smart tv in condizione di guardarci e ascoltarci.

La disconnessione infelice

Paranoia – più o meno fondata – da Grande Fratello a parte, siamo tutti vittime di un sistema di servizi che, nella tensione di soddisfare i nostri bisogni, non solo ci profila ma cerca di farlo appena si manifestano. Anzi, prima. E questo tentativo  di prevedere i nostri comportamenti sulla base di indizi e abitudini – le mappe di Google o di Apple ne sono mirabili esempi – ci fa divenire tutti sorvegliati. Il motto di Google “Don’t be evil” assume, in questa situazione, una valenza di etica aziendale. Morale più o meno rispettata, anche se gli scandali e gli hackeraggi che hanno coinvolto Facebook rivelano quali sono i rischi che si corrono.

Disconnettersi felicemente si può? La risposta non c’è. Per gusto del paradosso, verrebbe da dire di cercarla su Google. È che probabilmente senza il nostro smartphone ci sentiremmo e, per molti versi, saremmo sul serio “tagliati fuori” da conversazioni, lavoro e relazioni familiari. Forse dovremmo solo abituarci a vivere con l’idea che il telefono ci spia? Per la verità non è solo quella periferica a poterlo fare.

Emblematico è il caso Alexa, l’assistente virtuale di Amazon. Una donna americana avrebbe avuta registrata una conversazione privata da uno speaker, Amazon Echo, presente in casa sua. Il bello è che l’assistente “ha deciso” per proprio conto di spedire l’audio a un altro contatto. Solo perché ha intepretato le parole della conversazione come un ordine.

Ecco, forse tutto quel che mi è accaduto è frutto di un malinteso. Letteralmente.