Rembrand Kebab (Scuola di Atene)
Rembrandt Kebab (Scuola di Atene)

Panfocaccia al rosmarino, pollo croccante, insalata e formaggio cremoso insaporito al bacon. Sono gli ingredienti del “panino ciociaro”. Un sandwich che sta portando McDonald’s davanti all’Antitrust. Altro che “piccoli piaceri”, come proclama la linea gastronomica. La Coldiretti della Ciociaria ha presentato un esposto per pubblicità ingannevole. Eravamo abituati ad Amatrice, che al massimo protestava verbalmente quando qualcuno usava in senso negativo l’espressione all’amatriciana o sbagliava ricetta. Ma stavolta è diverso.«Da queste terre – dicono gli agricoltori frusinati – ha origine una cucina genuina, del tutto distinta e lontana dai prodotti gastronomici propinati dall’azienda statunitense». E poco importa che Barack Obama e consorte adorino mangiare italiano al ristorante Spiaggia di Chicago.

È inutile anche affannarsi a cercare il “ciociaro” nei McDonald’s americani. Quella “pagnottella” è venduta solo in Italia, e “La Ciociara” nelle platee a stelle e strisce è, al massimo, sinonimo di Sofia Loren. La catena di fast food americani in Francia ha il P’tit Poivre, un panino con salsa al pepe, in Inghilterra un prodotto infarcito di cipolla. Ed in Italia? Il Ciociaro (e  Caprese, per il quale non risulta che a Capri si siano adirati, al pari dei residenti a Camogli per l’omonimo panino dell’Autogrill).

Ma il “non passa lo straniero” ha assurto notorietà, e questa davvero “internazionale”, grazie alla legge antikebab della Regione Lombardia. L’aspetto esilarante – si fa per dire – è che per bloccare il panino da asporto per le strade della città, l’angelo sterminatore regionale avrebbe impedito pure di consumare pizze e gelati per le vie. Eppure l’Italia ha un’antica tradizione nei cibi di strada: frutti di mare crudi pugliesi, olive all’ascolana, piadina, focacce liguri, gnocchi fritti emiliani, castagnacci toscani, porchetta romana, pani ca’ meusa (pane e milza) palermitani e crêpes piemontesi. Quella antikebab non è però una crociata leghista. Sarebbe una lotta “ai tavoli abusivi”, cerca di far capire l’ideatore. Al The CousCous Clan – gruppo che difende la contaminazione “transgastronomica” – raccontano però di una email partita, in un’altra regione, da un esponente italiano di una associazione internazionale per la promozione della cultura del cibo a proposito di venditori di kebab. «Questi negozi – vi si leggeva – sono fonte di sporcizia, mancanza totale delle misure igieniche fondamentali, centri di spaccio, nonché di riciclaggio di denaro sporco, e chi più ne ha, più ne metta». Insomma, un po’ di insofferenza in giro c’è.

Dove però non arriva il protezionismo antikebab, a rivendicare l’italianità ci pensa il “federalismo alimentare“. Il Veneto ha “imposto”  che nelle mense pubbliche la metà dei prodotti cucinati sia veneta. Una scelta da fibrillazione comunitaria in materia di concorrenza. Sulla falsariga – e con intento nobile – si sono mossi Lazio, Calabria e altre regioni. Proprio oggi però Bernardo Chessa, 38 anni, ricercatore di Veterinaria a Sassari, ha conquistato la copertina di Science (numero del 24 aprile 2009) per dimostrare – tra le altre cose – che la pecora sarda proviene dal Medio Oriente. Animali semi addomesticati al seguito delle popolazioni nomadi. Senza questa migrazione, senza questa “cultura”, non avremmo oggi gli splendidi formaggi sardi. Tutto ciò non fa che confermare l’impossibilità di fermare scambi e mescolamenti. Basta dare uno sguardo alla nostra tavola rispetto ai cibi che mangiavamo prima degli anni ‘80. E non certo ciò accade nell’era della globalizzazione o per la pressione extracomunitaria.

La Coldiretti, frattanto, si accinge a lanciare un manifesto per una filiera agricola tutta italiana. Il tutto sotto l’egida – ormai di moda, sebbene con un po’ di fondamento se presa cum grano salis – di un’etica del consumo a km zero (senza inquinare per trasportare le materie prime da un angolo all’altro dell’Italia) e possibilmente anche con il bollino del biologico. Diverte, poi, acquistare qualcosa da uno dei distributori automatici di frutta “bio” – di una ditta, questa sì, ciociara – e ritrovarsi, a volte, tra le mani una mela argentina. Biologica sì, ma alla faccia dei km zero.