Il ratto delle Sabine del Giambologna (foto di atrogu)Se passa la manovra, potrò dire di essere nato in una provincia che non c’è più. Infatti, Rieti – creata artificialmente da Mussolini nel 1927 – ha 159 mila abitanti. Ben al di sotto, dunque, dell’asticella dei 220 mila residenti che le eviterebbero lo scioglimento, al pari di ulteriori otto amministrazioni  provinciali in Italia. Ad onor del vero ce ne sarebbero anche di altre parimenti spopolate. Ma siccome appartengono a Regioni a statuto speciale o confinano con stati esteri, si salveranno. Zampino leghista? Forse. Resta il fatto che la breve vita della Provincia di Rieti, 83 anni, fresca di trasferimento in un palazzone nobiliare del centro città dopo esser stata per decenni oltre il fiume Velino, sembra ormai segnata. Hai voglia a tirar fuori i quarti di nobiltà, come i natali di Lucio Battisti o gli atti di Francesco da Assisi.

Quel che è “divertente” – e si fa per dire – è il senso di smarrimento che sembra cogliere i reatini e i sabini. La distinzione tra i due “popoli” sa di finezza, ma chi li conosce ne capisce l’evidenza. Fabio Melilli, il presidente dell’amministrazione provinciale –  ironia del destino:  già  presidente dell’Unione province d’Italia – è, oltre che contrariato, a dir poco perplesso di fronte alla prospettiva che la confinante Roma abbia una sua area metropolitana. «Aspettiamo con ansia – dice – che il Governo ci spieghi, visto che dovrà sparire la Provincia di Roma, se dobbiamo essere accorpati a Terni a L’Aquila, o ad Ascoli e in quale Regione finiremo».

Infatti il punto è proprio questo. Rieti come provincia “non esiste” . Ma neanche sa dove andare. Il Reatino non ha una “unità socioculturale”, come quella di una “nazione”, per intenderci. L’anno scorso sventò la secessione di Leonessa verso l’Umbria. Periodicamente fa i conti con le spinte centripete verso l’Abruzzo delle fasce a est. Per non dire di quelle della porzione di Bassa Sabina ad ovest, incuneata tra il Viterbese e il Ternano. Neanche la stessa definizione di Sabina è tutta d’un pezzo. Esistono – raccontano gli archeologi – una Sabina tiberina, una romana, una velina e, forse, se la memoria non mi tradisce, finanche una picena.

Non parliamo dei dialetti, diversi tra di loro come poche volte. Il motto della Provincia d’altronde  è Tota Sabina Civitas, “tutta la Sabina è una città”. Sembra quasi “l’uniti nella diversità” della Ue.  Una eterogeneità tale che si percepisce perfino quando si parla di punti fermi in termini cartografici.  In provincia di Rieti ci sono infatti la bellezza di due “centri geografici d’Italia”: uno in una piazza del capoluogo, simboleggiato da una sorta di gigantesco monumento al Bel Paese (quello della Galbani, non la Penisola). Ed un altro tra Antrodoco e Borgovelino nel cortile di una stupenda chiesa romanica. Vai a capire quale è quello giusto, mentre pure Narni – dalla vicina Umbria –  reclama la primazia del suo umbilicus Italiae.

L’idea che esistesse una Provincia Sabina è addirittura del 1605, per via di una delimitazione territoriale di papa Paolo V. Il capoluogo? Collevecchio, oggi un villaggio. Fiero, ma piccino. Rieti e il suo circondario erano invece in Umbria, tanto per capirci. Fatta l’Unità d’Italia, la città che poi sarà di Andrew Howe, del liceo di Montanelli (diplomato al “Varrone” nel 1925) e di Franco Marini, iniziò a sgomitare per inglobare non solo territori ex angioini – come Cittaducale – ma pure il circondario di Terni. Siccome però il destino è cinico e baro, negli anni Venti Rieti dovette aggregarsi a Roma per non essere assorbita da Terni. Quindi il Duce, che sul Monte Giano conserva ancora scolpito tra gli alberi un gigantesco DVX, nel 1927 diede finalmente soddisfazione ai suoi amici reatini. Ora che le cose vanno a rotoli, il sindaco di Rieti, Giuseppe Emili, torna alla carica. Ma punta verso sud: vorrebbe allargare i confini della provincia di Rieti inglobando pezzi dell’hinterland romano. Quasi un Ratto delle Sabine all’incontrario.

La situazione è fluida e bizzarra più che altro perché, togliendo i pezzi al Reatino, rischia di esser ridotto il territorio del Lazio. In che provincia spedire l’Alto Reatino o l’area marsicana? Di Ascoli Piceno non se ne parla: è incluso anch’esso nella lista delle province reiette, quelle da chiudere. Viterbo è invece sideralmente lontana (ma non per i rifiuti, che da Rieti riescono ad arrivarvi), per cui non rimane che l’Aquila. Via un pezzo. I laghi della Piana, Leonessa e Labro? Sono già quasi in Umbria. Via un altro pezzo. Restano brandelli di Bassa Sabina che in parte vorrebbero scappare con Narni e Terni. E giù, un’altra fetta di territorio. Quel che residua è a ridosso dell’agro falisco, nel Viterbese, ma con un Tevere che esonda a far da barriera invalicabile. Rimane a sud la Provincia di Roma. Che i protagonisti della mobilitazione per salvare la Provincia di Rieti possano invocare lo status di territorio di confine al pari delle miniprovince del nord Italia? Dopo il ratto, ecco la diaspora delle Sabine.

aggiornamento del 27 maggio 2010, ore 19.40

Signori, abbiamo scherzato. «Non c’e’ nessun accenno alle province nel decreto». Lo ha annunciato da Parigi – oggi pomeriggio – Silvio Berlusconi, dopo che il documento del Ministero dell’economia aveva riportato testualmente: ”Sono abolite 10 piccole Province (con meno di 220.000 abitanti, non ricadenti in regioni a statuto speciale)”. Il giallo, che ha sollevato un’infinità di polemiche, insomma si è chiuso nel miglior modo per la politica italiana: con un dietrofront.