C’erano pure due link tra i documenti forniti agli studenti nella prova di italiano della maturità. Un collegamento ipertestuale al discorso di Martin Luther King conosciuto universalmente come “I Have a Dream” e uno – incompleto – all’intervento sul dono al festival della filosofia di Carpi del 2012 di Enzo Bianchi. Stampati su carta non erano, paradossolamente, cliccabili. Ma costituivano il tentativo di far riferimento alla fonte, al pari delle altre indicazioni bibliografiche, per qualcosa che non necessariamente trovi sugli scaffali di una biblioteca o in un’emeroteca.

Il link alla pagina inesistente

La loro presenza è stata emblematica, più delle stesse tracce dedicate al “futuro prossimo” (come hanno scritto alcuni), di come la scuola non possa far a meno – di fronte al mondo che cambia – di esserne coinvolta. L’ipertesto si è insinuato nel testo, nonostante nelle aule il primo sia talora visto – da una cultura ancorata al libro – come un’insidia. Fatta la tara di quanto ne scrive Dianora Bardi, proprio in uno dei brani offerti agli studenti alla maturità, circa la normalità del digitale tra i banchi di scuola. Tanto poco normale che uno dei link – evidentemente trascritto male dal Miur (http://www.vita.it/non) – porta ad una pagina inesistente.

Storia senza fine e senza senso

La traccia più scelta, stando a quanto riferiscono i giornali, è stata quella sulla tecnologia pervasiva. I testi offerti dal Miur per consentire ai ragazzi di svolgere la prova di scrittura documentata sono stati in questo caso per lo più articoli di giornale, più una frase del filosofo Umberto Galimberti. La constatazione del pensatore è quella di una decadenza dei fini, di una tecnica che o genera un progresso senza meta o avanzamento, ma non senso della storia. Una lettura che per certi versi parte da una constatazione reale – quella della contrazione del tempo, tanto da farci sembrare storia il passato recente e non vedere il futuro come qualcosa di lontano – che, però, affonda le radici nel nostro passato. La tecnologia, la sua accelerazione, i suoi effetti antropologici e sociali, non sono l’improvviso manifestarsi, un magica epifania che ne giustifichi perfino l’adorazione religiosa, ma un processo “storico”. Non la ricerca di una genesi del nostro presente in un momento preciso, nel quale erano scritte già le radici del futuro, non – come metteva in guardia Marc Bloch – «un inizio che spiega». Quando scrivo che il futuro è sempre esistito – al netto della semplificazione e delle curiosità storiche implicite in questa narrazione – intendo anche questo: che il nostro domani è soltanto un processo storico, sebbene fatichiamo a rendercene conto per una sorta di cortocircuito culturale provocato dalla stessa accelerazione del cambiamento.

Le radici del futuro

Giovanni Belardelli sul Corriere della Sera  scrive che se si provasse a leggere le pagine del ministero come se fossero un tema, dovremmo concluderne che quel tema non ci parla quasi per nulla dell’Italia. La risposta perché accada – brillante qual è – se la dà da solo: immersi da vent’anni in un mondo globalizzato, è inevitabile che questa sia una scelta naturale, coerente, magari ottima. Ma Belardelli ritiene “discutibile” che ciò avvenga «prescindendo, come sembrano fare le tracce ministeriali, dalla specifica realtà del Paese in cui quei giovani vivono. Dovrebbe anzi essere la scuola, perché nessun altro può farlo, a esplorare i legami, le relazioni spesso nascoste, tra la realtà in cui viviamo immersi e la cultura da cui proveniamo». Al pari delle considerazioni di Galimberti – che potrebbero essere l’abbrivio per qualche docente per leggere in chiave apocalittica il nuovo e di conseguenza valutare in questa luce le prove d’italiano degli studenti – anche queste si prestano ad un’interpretazione “conservatrice”, a dir poco nefasta. Quando, invece, prese per il loro corretto senso, dovrebbero divenire la base per un cambiamento epocale nei programmi scolastici. C’è da superare l’approccio crocio-gramsciano: la scienza, per Benedetto Croce, era solo “un libro di ricette di cucina”, e ancor meno valeva la tecnica.

Senza barriere

Si sente spesso propugnare, sul versante opposto, che la scuola dovrebbe privilegiare – in un mondo come questo – la formazione scientifica e tecnica. Nulla di più miope dividersi in fazioni che esultano o si disperano per il progressivo abbandono del liceo classico. Semmai è da riscoprire – ed ecco qui che le nostre radici, ad esempio, rinascimentali riaffiorano – che non si possono tenere separati saperi umanistici e scientifici. Citare Leonardo da Vinci può sembrare pleonastico e banale, ma magari rende l’idea. Lo stesso ipertesto, quello che si è insinuato nelle tracce, ha radici storiche e culturali profonde. E pure italiane. Insomma tecnologia e scienza tra i saperi classici e cultura umanistica tra quelli di un liceo scientifico o degli istituti tecnici permetterebbero di adeguare in maniera equilibrata istruzione e mutazione epocale. «Cultura – citava infatti Albert Einstein – è ciò che rimane dopo che si è dimenticato quanto si è imparato a scuola». È qualcosa che va al di là delle nozioni (e non so perché mi viene in mente un bello scritto di Stefano Moriggi “Connessi. Beati a quelli che sapranno pensare con le macchine“). È un approccio culturale nel quale l’esperienza sul campo, fatta di sperimentazioni e verifiche, si coniuga facilmente con il pensiero astratto e la riflessione di radice umanistica dei nostri classici. Ma forse sono un utopista.