Bella, la Croce Rossa. Per una singolare coincidenza, nel metamondo un po’ fauto dei media, è la bellezza a far parlare della benemerita organizzazione. Non, purtroppo, le opere di bene come sarebbe più doveroso. Capita in Italia, dove alla festa del 2 giugno una bella crocerossina – donna però riservatissima, madre di due figli, oltre che moglie di un famoso chirurgo – ha calamitato l’attenzione del premier e, di conseguenza, del caravanserraglio mediatico italiano. Capita anche in Francia, dove invece è Adriana Karembeu, indossatrice slovacca e moglie del calciatore Christian Karembeu, a far da ambasciatrice della Croix-Rouge nella settimana di raccolta fondi.
Sono dieci anni che la bionda mannequin è in contatto con l’organizzazione transalpina, mentre dieci giorni sono stati necessari – così si racconta – per addestrare (come di solito accade per tutti) l’infermiera, con un diploma che però vale due anni di Accademia militare, a scortare la bandiera italiani ai Fori Imperiali. Che la Croce Rossa sia “donna”, almeno nei paesi latini, sembra confermarlo la piacente ragazza impegnata a parlarti (e osservarti) dall’altro lato dello schermo della Cruz Roja Española. E non è una celebrità iberica. «Mi chiedevo – commenta una nostra connazionale trapiantata a Barcellona – se in versione italiana la donna (piacevole, ma non una bellona) e la pubblicità in sè (divertente, la tipa fa le smorfie, e non sono smorfie “civettuole”) sarebbe la stessa in Italia. Ma forse anche la mia “idea” di televisione italiana è ormai distorta».
I giornalisti sono una razza in via di estinzione? Forse. Colpa (o merito) del web e dei contenuti generati dagli utenti, ma anche di una crisi economica e strutturale. Il patrimonio professionale giornalistico rischia di andare in frantumi. Frammenti che, però, vanno conservati gelosamente, trasformandoli anche in “competenze” per le generazioni che producono e consumano contenuti dal basso (ugc, user generated content). Tutti oggi possono scrivere per qualche pubblico. Tutti possono entrare nel flusso della comunicazione in rete. Tutti possono fare quel che facevano i giornalisti. Ma per una matura e consapevole cittadinanza digitale costoro dovranno poter sfruttare, migliorandoli, quegli strumenti che “sono stati” ricchezza professionale dei giornalisti.
La libertà di opinione non è libertà di stampa. Sono parenti, mica gemelle. Banale? Provate a farlo emergere dalla marmellata concettuale cui, ormai, siamo assuefatti. Un conto è raccontare un evento – o esprimere un’idea – al bar, tra amici o sul web. Altra cosa è fare tutto ciò a mezzo stampa. La ragione? Anche questa ovvia: un giornale, una radio, una tv sono un’impresa, hanno scopo di lucro (o altri fini meno nobili). Mica bazzecole. Mettendo dunque da parte le utopie sulla purezza degli editori, anche il più libero dei redattori risente dell’assetto produttivo. Sfondo porte aperte, lo so: ci sono pile di saggi sul giornalismo a sostenerlo a proposito su “ciò che fa notizia”. Oltre all’immancabile Sergio Lepri.
In un “fortunato” saggetto di fine corso accademico sull’articolo di giornale come prova della Maturità definii il temino un “articolo immaginato”. Allo studente è infatti chiesto di “immaginare” di scrivere un articolo per un lettore che, nei fatti, non lo leggerà ma il candidato deve tener presente. In realtà la prova altro non è che un testo destinato ad un professore, in possesso di una “sua idea” di giornalismo. E per costui si scrive. Ai limiti dello schizofrenico. Purtroppo anche il giornalismo “vero” sta sempre più diventando “immaginato”: basta sostituire al professore, l’editore (anche se solo di riferimento). Del realismo di più realisti del re ne abbiamo pieni i Tg e forse i quotidiani, di qualunque famiglia siano. Sono però settimane, se non mesi, che i giornali – quelli di carta – si arrotolano sotto forma di randelli di parole. E, sinceramente, un lettore distaccato ha serie difficoltà a scorgervi l'”informazione”.
Prima ragione. Karl Popper, che certo non è di sinistra, sosteneva non essere la democrazia tout court il governo del popolo o altre “amenità” simili, bensì quella che ha efficienti sistemi di controllo del potere. Se l’informazione diventa “incredibile”, attratta in una spirale inesauribile di mistificazioni, omissioni o inutilità (stupendo il servizio sui “servizi” del Tg1 del Trio Medusa), smette di fornire “materia prima” fondamentale a quel processo – democratico, sì – che Luigi Einaudi riassumeva in “conoscere per deliberare”. E questa è la prima ragione per cui, secondo me (notoriamente allergico alla piazza), è opportuno il 3 ottobre partecipare al sit-in a Roma della Fnsi per la libertà di stampa.
Non sono scomparso, ho solo peregrinato fisicamente e virtualmente per l’Italia. E non solo. Nel frattempo è uscito un saggio curato da Luisanna Fiorini dove ho messo lo zampino. Se ne inizia a parlare su Ibridamenti in Mashup, e la macchina sei tu. E se ne continuerà a chiacchierare (nessun dibattito, please) al Bar Camp Venezia il 25 ottobre prossimo.
Fiorini, L. (a cura di), Cittadinanzadigitale, Quaderni di documentazione dell’Istituto Pedagogico di Bolzano, Edizioni Junior, Azzano S. Paolo (BG), 2009.
ISBN 978-88-8434-478-6Prefazione di Antonio Sofi. Contributi di Marco Caresia, Isabel De Maurissens, Andreas Robert Formiconi, Giorgio Jannis, Maria Maddalena Mapelli, Edoardo Poeta, Mario Rotta. Copertina di Giorgio Zigiotti