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Luisanna Fiorini mi ha chiesto, la scorsa primavera, un contributo per Cittadinanzadigitale. Il volume è  uscito a luglio per i “Quaderni di documentazione dell’Istituto Pedagogico” di Bolzano (ISBN 978-88-8434-478-6). Ho scritto il testo avendo in mente, come destinatari, i formatori. O, comunque, coloro che si occupano di dare una definizione a quali competenze sono necessarie per una matura e consapevole cittadinanza digitale. Quel che segue ne è un riassunto (si fa per dire), fatto per ritagli ed aggiunte, anche un po’ disarticolato. Chi, invece, pensa di sopportare l’intero fardello di parole – cui la word cloud qui sopra fa riferimento – può anche sorbirsi l’estratto su Issuu, nel quale per un singolare paradosso rispetto alla tesi sostenuta (quella della tracciabilità come must del digitale) ci sono tutti i riferimenti in nota. Ma non me ne voglia – li metterò pian piano sotto forma di link, laddove possibile. Ed abbia pietà di me (per la mattonata).

I giornalisti sono una razza in via di estinzione? Forse. Colpa (o merito) del web e dei contenuti generati dagli utenti, ma anche di una crisi economica e strutturale. Il patrimonio professionale giornalistico rischia di andare in frantumi. Frammenti che, però, vanno conservati gelosamente, trasformandoli anche in “competenze” per le generazioni che producono e consumano contenuti dal basso (ugc, user generated content). Tutti oggi possono scrivere per qualche pubblico. Tutti possono entrare nel flusso della comunicazione in rete. Tutti possono fare quel che face­vano i giornalisti. Ma per una matura e consapevole cittadinanza digitale costoro dovranno poter sfruttare, mi­gliorandoli, quegli strumenti che “sono stati” ricchezza professionale dei giornalisti.

Notizie ad un penny, anzi di meno

Al consumatore/produttore di informazione online, per non smarrirsi, ser­vono infatti strumenti tecnici e culturali. Egli si può già avvalere di aggregatori di feed rss o di portali che produ­cono una gerarchia delle notizie con la logica della “saggezza delle folle”. Ma per usare questi strumenti ha bi­sogno di possedere competenze ad hoc: dalla ricerca e selezione delle fonti alla gestione dei rischi del cosiddet­to daily me, fino al destreggiarsi con spirali “quasi del silenzio”. Al cittadino digitale serve pure la consapevo­lezza degli algoritmi utilizzati dagli aggregatori automatizzati di news. Conoscenze che investono le capacità di scrittura ipertestuale: “pubblicare” online significa rendere rintracciabile dai motori di ricerca un contenuto. In mancanza, lo si rende “pubblico”, ma non “pubblicato” (e sepolto nel deep web).

Giornalisti ed ugc

Foto di petesimonIl giornalismo, da parte sua, è investito da un mutamento dal basso. La produzione dal e nel web sta assumendo un ruolo – non necessariamente preponderante – nella fattura dei prodotti editoriali classici. I prosumer, i lettori/scrittori, sono oggi in condizione di mettere a disposizione del circuito dei media una messe di informazioni, tanto pregiate quanto “tossiche”. Un impegno di decodifica nuovo per le redazioni. L’impatto dei contenuti generati dagli utenti ha poi prodotto, in alcune esperienze, almeno tre effetti: l’unifica­zione dei desk online e tradizionale, il ricorso al crowdsourcing e le esperienze di giornalismo low cost.

Come nasce la “notizia”

News are what newspapermen make it. L’affermazione è consolidata, quasi scontata. Se però i detentori del potere di “far notizia” non sono più esclusivamente i giornalisti – come nel caso del citi­zen journalism – e, nel contempo, i contenuti generati dagli utenti diventano una delle fonti del circuito dei me­dia, si aprono due temi: quali “valori notizia” e routine produttive entrano in campo e, secondo argomento, quale è la “qualità” delle informazioni prodotte attraverso questi processi.

Notizie dalla coda lunga

Sotto il primo profilo emerge un apparente rovesciamento di prospettiva: non è il giornalista che mette un avvenimento in relazione con il pubblico, viceversa è il pubblico che entra in relazione con l’evento, attribuendogli così il valore di “notizia”. Ma ciò non esautora, per una serie di ragioni, i fornitori di contenuti dal possedere – “migliorandole” – competenze maturate nella professione giornalistica, anche nel campo dell’online: esistono pubblici, contesti, ma anche fenomeni di propagazione che rendono laborioso l’adegua­mento al feedback nell’uso della tecnica di accrescimento progressivo della massa informativa. Quel metodo che il giornalismo online aveva mutuato dalle agenzie di stampa. Nello stesso tem­po anche i semplici “lettori” di informazione dal web, inteso in senso esteso, non possono prescindere dal pos­sedere un’ “alfabetizzazione informativa”.

Foto di massdistractionQuando la routine fa notizia

Quanto alle routine produttive, i portali del giornalismo dal basso hanno mostrato una tendenza a fissare delle regole. Tacite, scritte o concertate. Sul fronte del giornali­smo “per professione”, invece, i giornali tradizionali si sono accorti che il mondo si è esteso oltre la realtà fisica e che le relazioni all’interno del “virtuale” hanno sempre più valore. Il “giro di nera” passa anche per gli status update di Facebook o Twitter, mentre l’agenda di redazione non sembra “in apparenza” (visto che si usano gli rss reader) essere uno strumento di lavoro per chi non deve sistematicamente garantire una copertura dei fatti come bloggers, giornalisti partecipativi o frequentatori delle varie sfere pubbliche digitali. Le ristrettezze economiche dei grandi media inducono però a cercare collaboratori “sul posto”. Anche se il “luogo” è virtuale. E per trovarli – a monte – gli strumenti utilizzati possono essere motori di ricerca o social media, mentre – a valle – si attivano processi di controllo dei materiali pervenuti. Il pianeta è immerso in una rete di macchine ed individui che lo osservano, generando una sorta di immenso e disorganizzato database nel quale frugare. Muta, insomma, non tanto il giornalismo, quanto tutto il sistema dell’informazione i cui attori, ruoli e routine assumono una connotazione instabile e fluida. Serve individuare le competenze che permettono di gestire questo continuo divenire, ma ad uno strato superiore rispetto alle singole prassi. Infatti il costante mutamento tecnologico renderebbe presto obsolete le singole tecniche, meglio puntare sul metodo.

La “qualità” delle informazioni

feedChiunque oggi può pubblicare qualunque cosa. L’attendibilità è – tra i tanti – uno degli attributi che può rivelarsi sostanziale e specifico per la “salute” della società (digitale). L’ambiguità di fondo del web, però, è ineliminabile. Ed allora bisogna saperla gestire. Gli strumenti sviluppati dai giornalisti “analogici” per la decodifica della complessità e dell’attendibilità delle fonti possono per fortuna risultare utili, sebbene non sufficienti. Essi, in ogni caso, devono entrare nell’alfabetizzazione primaria. Ma se devono aggiungere ad essi altre competenze, fon­date su una profonda conoscenza della rete e del “fattore umano” che la anima. Chi pubblica un contenuto digitale, non essendo necessariamente un “professionista dell’informazione”, non è detto abbia la preoccupazione di essere preciso, imparziale e completo. Magari è più attento alla trasparenza, alla rintracciabilità dei documenti, delle fonti. Il punto è che l’atto di mettere online non esige che chi lo compie – blogger, videomaker, commentatore o iniziatore di una catena di sms – abbia necessariamente in testa – come invece capita a giornalisti ed autori – tutti i pubblici che potranno accedere a quel materiale. Né chi “pubblica” potrà immaginare l’uso che sarà fatto della materia prima digitale. Sono contenuti che si muovono poi in un “cerchio quasi magico”, dove anche esperienze giornalistiche come, ad esempio, quelle sviluppate nei virtual worlds hanno dimostrato che si possono affiancare a strumenti di indagine virtuali la verifica delle identità, delle affermazioni, degli eventi artificiali incrociandoli con quanto il web contiene come immensa banca dati. Insomma, qualcosa che ricorda il “vecchio” lavoro del cronista. Una triangolazione che avviene non solo attraverso il to google it, ma esaminando ogni piccolo indizio, magari nel pie’ di pagina o nei credits del sito. Nel bagaglio indispensabile del cittadino digitale, e del giornalista, restano insomma sempre conoscenza, relazioni personali, precisione, completezza ed un’etica di fondo.

Foto di Mykl RoventineIl controllo dei messaggi in bottiglia

Sul fronte apparentemente “opposto” del processo informativo – quello del lettore, dello spettatore, della utente, in realtà sempre più spesso del prosumer – si è realizzato da tempo il passaggio dal “cittadino informato” al “cittadino monitorante”. Il processo di attribuzione di rilevanza alle informazioni, ai soggetti che le portano o ne ap­paiono gli autori “inscritti nel testo”, avviene a valle del processo informativo. Ciò non significa che informare attraverso la rete sia mettere messaggi in una bottiglia, in uno stato di impotenza che fa il paio con l’alleggerimento dalle responsabilità dell’atto di pubblicare. Il primo “autore” non ha che un numero ristretto di cornici – grafiche e di contiguità tematica – nelle quali immaginare collocato il prodotto. Ha però, in verità, in mano anche lo strumento che può contribuire a (pre)scrivere o, quanto meno, a suggerire percorsi di verifica, interpretazione, scoperta, accumulazione connessi al tuo testo: l’ipertestualità, il collegamento del prodotto a determinati nodi della rete in cui va ad inserirsi. Se questo “controllo della scrittura digitale” – questo dovere di dare indicazioni sulla filiera, sulla tracciabilità dell’informazione – rinvia a competenze ipertestuali, classificatorie, creative o di enciclopedia di riferimento, non può escludersi conseguentemente che la messa in rete implichi responsabilità. Non certo quel genere di responsabilità che hanno in testa alcuni legislatori i quali, di fronte alle manifestazioni del pensiero (in alcuni casi obiettivamente ripugnanti), rispondono con ipotesi oscurantiste. Ma serve semmai una “responsabilità” che faccia coppia con il concetto di libertà, intesa come simbiosi di potere e cultura.

La carta dei diritti

Il prosumer digitale non ha una redazione alle spalle, il suo editor è di solito la comunità di riferimento, che però interviene a posteriori. Ma non sempre questo può bastare, se questo “pubblico-redattore” è connivente – magari proprio perché parte dello stesso gruppo di interesse – di fronte ad un contenuto “drogato”. Solo alla periferia di questo processo, nel corso della grande conversazione in rete, le distorsioni potrebbero venirea galla. C’è chi ha pensato ad un rimedio: l’ipotesi è quella di fissare un codice etico per la produzione di contenuti in rete. Ma non si tratta di una novità. Senza norme, ad oggi gli arbitri della partita in materia di libertà di manifestazione del pensiero (e di riservatezza) sembrano restare i provider dei servizi, tra cui i motori di ricerca. Neanche è però possibile individuare, d’altro canto, un’autorità superiore ed esterna che regoli la materia: troppi gli stakeholders, troppi i livelli, troppe le autorità. Da qui l’idea di un Internet Bill of Rights come processo dinamico. Solo che le regole sovranazionali dovranno ricorrere ad un procedimento di autoregolazione in gradi di mettere al centro anziché gli Stati, gli individui e gli altri attori della rete.

Da dove viene l’informazione?

L’esplosione del numero dei “santuari” del sapere, l’affiancarsi ad essi di internet, sono stati accompagnati da una maggior controllabilità della conoscenza. Di fronte ad un’informazione nuova è ormai naturale chiedersi «da dove viene?» e «come è stata acquisita?». Spesso però non riusciamo a dire da dove provengono le cose che sappiamo: troppe le fonti, per di più ramificate e combinate tra di loro. Il mestiere di trasmettere/acquisire conoscenza diventa allora la capacità di sapersi muovere in questo perenne stato di imminente overload, di quell’indigestione di informazioni che potrebbe gettarci in una Babele incomprensibile. oggi l’ipertestualità – i link, l’esser spesso la realtà un ipertesto (pensiamo a come è “impaginato” un centro commerciale) – ci ha abituato a sorvolare un testo ed approfondirlo senza un ordine prestabilito. Ci si abitua a “guardare simultaneamente” e quindi approfondire secondo criteri talora imprevedibili. Mai come oggi, dunque, il vero saggio è colui che sa di non sapere.

Foto di Chalkie_CCIl valore della tracciabilità

Esiste però un sapere “linguistico” in grado di marcare la qualità della cittadinanza digitale ed è quello che attiene alla capacità di inscrivere/ricostruire/connettere – tanto come autori che come fruitori – i percorsi del contenuto costituito da una sequenza di bit. È questa opportunità che offrono la rete ed il digitale, la cooperazione interpretativa, il superamento del vagabondare anestetizzante dello zapping, la consapevolezza che i link si fondano sul principio di associazione e non sulla casualità.«Un channel surfer – ha osservato Stephen Johnson – vagabonda avanti e indietro tra i differenti canali perché è annoiato. Un Web surfer clicca su un link perché è interessato». Una ragion critica delle connessioni, una tracciabilità che “chi crea” ma – vista la prospettiva rovesciata dei pubblici come autori, classificatori, interpreti – soprattutto “chi fruisce” deve saper generare. «Chi si muove attivamente all’interno di un ipertesto – ha scritto Alberto Marinelli – deve imparare a leggere come elementi significanti anche la struttura dei link e l’organizzazione spaziale delle informazioni. Il lettore deve confrontarsi con il progetto di connessioni disposto dall’autore restituendo così, attraverso la navigazione, lo “spazio logico” che contraddistingue l’effettivo atto di scrittura ipertestuale; ma è comunque libero di sovrapporre, consapevolmente o meno, il proprio “spazio logico”, costruito attraverso le specifiche sequenze di navigazione, nell’ambiente tracciato dal progetto originario dell’autore».

“Doveri” (competenze) del cittadino digitale

Nell’informazione offline il riferimento alle fonti, ai documenti, alle associazioni con altri episodi o fenomeni di cronaca erano riservate al giornalismo d’inchiesta, ai newsmagazine o alle (poche) inchieste televisive. Con il digitale, la telematica, l’ipertestualità in senso ampio è possibile tracciare percorsi sterminati dove il “la” dell’autore conduce alla consultazione in prima persona di fonti, con la possibilità di rieditare, aggiungere, rilanciare, tradurre, correggere le informazioni originarie. Ecco allora che gli imperativi di accuratezza ed imparzialità – propri della tradizione culturale giornalistica – implicano per il cittadino digitale un potere/dovere ulteriore: la tracciabilità. L’oggetto informativo in formato digitale dovrebbe insomma contenere gli elementi per consentire al lettore – azionando le competenze in termini di uso della rete – di rispondere alle domande: “Da dove viene?” “Come è stato acquisito?”. Uno sforzo cui il “cittadino monitorante” non dovrebbe trovare difficile. Un saper “leggere” che è destinato a fare il paio con il saper “scrivere” (in senso lato) e che può fondare una matura e consapevole cittadinanza digitale.