Le donne in pensione alla stessa età degli uomini. L’Italia resiste, ma alla fine desiste di fronte alla decisione della Corte di europea di giustizia fatta valere dalla commissaria Ue Viviane Reding. “Tutti” in pensione a 65 anni. D’altronde – sia permesso di aggiungere un “giustamente” – Bruxelles ha minacciato di far rimborsare i lavoratori di sesso maschile, costretti ad un più lungo periodo di lavoro rispetto alle femmine, oltre che ad un’attesa maggiore prima di andare “a riposo”. Basta guardare le statistiche dell’Istat per capire che non ci sono scuse: a 65 anni le donne italiane hanno la speranza di campare mediamente altri 21 anni, contro i 17,8 degli uomini. Eppure – per non smentire di far le cose all’italiana – applicheremo la disposizione a metà. Anzi, alla sola metà del cielo che appartiene al gruppo degli oltre tre milioni di dipendenti pubblici: 254.023 lavoratrici, per ora. Per le donne del comparto si pensava di portare il pensionamento, dal luglio 2011, a 62 anni per arrivare a gennaio 2016 all’età di 65 anni dipendenti. Oggi questo traguardo lo taglieranno entro il 2012.
Ed il resto del mondo le lavoro, quello più consistente? Non si toccherà. La ragione è stata spiegata, neanche troppo forbitamente, dal ministro del welfare Maurizio Sacconi. «Sarebbe molto più oneroso – ha detto – il settore privato è caratterizzato da una tale segmentazione da non consentire un’uguale regolamentazione previdenziale. Le donne interessate sarebbero costrette ad attendere la pensione da disoccupate». “Da disoccupate” vuol dire – allora – che il pubblico impiego è un ammortizzatore sociale, perché altrimenti le lavoratrici nella fascia tra i 60 ed i 65 sarebbero destinate alla disoccupazione? Oppure sta a significare che il lavoro pubblico ha caratteristiche tali – in termini di usura fisica, psichica e professionale – da essere “più leggero” da affrontare rispetto a quello privato?
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