Obama. Roland Barthes diceva che “il mito è una parola”. Queste cinque lettere sono già entrate nel lessico contemporaneo – sovrastate perfino da un branding su quella “O” iniziale – dando vita ad una serie di derive (e derivazioni).

La prima è stata l’Obamismo, termine che indica – a mio modestissimo avviso – una nuova forma di militanza politica. Quella che non ti chiede tessere, quote d’iscrizione o magari di marciare dietro a una bandiera. L’Obamismo è l’adesione “take it easy”, facile come un click. E’ il sentirsi parte di un movimento spontaneo, nuovo, nel quale puoi mettere i “contenuti” che vuoi. Poi è venuta, ad elezioni fatte, l’Obamite. “E’ affetto da Obamite – scrive Antonio Sofi – chi evoca come il cavolo a merenda le gesta obamiane, più per cercare una disperata briciola di carisma che per innovare le prassi politiche e amministrative”.

In realtà il fenomeno Obama è una delle tante declinazioni della leadership come “exemplum” di cui parla diffusamente Zygmunt Bauman a proposito di modernità liquida. Un “esempio di vita” insomma, con unico programma se stesso – al pari al Berlusconi del 1994 (cosa sostenuta anche dal deputato di Forza Italia Antonio Palmieri) – che ha utilizzato il web (era il tema di cui si è discusso a Roma in un convegno alla Camera, anche con alcune curiose statistiche) per usare vecchi metodi attraverso la Rete, come ha rilevato Enrico Menduni: porta a porta, “vota e fai votare” eccetera.

Il nodo – per la politica italiana – è forse proprio qui: considerare internet un mezzo, qualcosa di “altro” rispetto alla realtà di tutti i giorni. Non una sua parte estesa, ma pur sempre un pezzo di realtà. Come ha detto David Orban, internet non è il futuro, ma il presente. Solo che i politici italiani sembrano afflitti da un analfabetismo internettiano, i dati pubblici non si prestano al mashup, gravati come sono da copyright e segreti d’ufficio. Antonio Sofi è stato brusco, ma realista: i politici hanno paura del web, la rete della grande conversazione. Insomma, è più facile considerare la Rete come il palchetto per un comizio digitale (d’altronde basta ricordare le apparizioni in avatar di Antonio Di Pietro o di Massimo D’Alema in Second Life), che non come occasione di dialogo e costruizione della res publica.

Tentativi ce ne sono, va detto. Da un lato YouDem, che – come ha ricordato Paolo Gentiloni – non è una televisione, ma una piattaforma di condivisione. Dall’altro proprio ieri Maria Stella Gelmini ha esordito su YouTube, totalizzando una valanga di commenti. E le è accaduto quel che – secondo Palmieri – sarebbe lo spauracchio degli esponenti politici nei mezzi “molti-a-molti” (tipo il bel progetto di Openpolis): andare a finire sulla stampa, senza poter replicare immediatamente. Esattamente quel che è capitato alla Gelmini sul Manifesto di oggi o, nei giorni scorsi, a più di un esponente del Pd romano per i suoi status update su Facebook puntualmente finiti su Corriere della Sera o su l’Unità.