«Bisogna convincere i nostri figli che laurearsi a 27 anni in Scienza delle Comunicazioni difficilmente apre prospettive nel mondo del lavoro». L’invito (Corriere della Sera, 24 ottobre 2013) viene da due prof, editorialisti ed economisti di spicco, Alberto Alesina e Francesco Giavazzi. Se tutto è comunicazione, niente è comunicazione. Figurarsi a studiarne i meccanismi.

D’altro canto – e questo forse sfugge – laurearsi a 27 anni in qualsiasi altra facoltà aprirebbe lo stesso ben poche prospettive. E vista l’Italia demeritocratica e povera culturalmente che hanno costruito decenni di comunicazione “bevuta” e non decodificata – proprio per mancanza nel grande pubblico degli strumenti culturali “da scienze della comunicazione” – pure coloro che terminano il corso di studi per tempo hanno davanti a sé prospettive nulle. Se siamo al 40,1 di tasso di disoccupazione giovanile non dipende certo da scienze della comunicazione.

Ma ai detrattori storici degli studi sulle comunicazioni non poteva sfuggire l’assist di Alesina e Giavazzi: demolire chi analizza – e quindi può smascherare la politica pop e i meccanismi mercantilisti di certa comunicazione – è cruciale. Stavolta è il turno, neanche a dirlo, de Il Foglio (“Scienza della Disoccupazione”, 25 ottobre 2013) che fa una confusione bestiale. Addebita agli anni ’80 la nascita di questa facoltà, epoca nella quale invece neanche esisteva – ma in compenso imperversava Drive In. Confonde i corsi di scienze della comunicazione con quelli di giornalismo, come se i primi fossero abilitanti per quella professione piuttosto che renderne, al massimo, più consapevole l’esercizio. E siccome quando si spara, si tira nel mucchio – beccando le scuole di giornalismo e il festival di Perugia – la conclusione è da antologia.

«Più che di giornalisti, ormai – scrive il volantino (visto che evidentemente non è fatto da giornalisti, dei quali non ce n’è più bisogno) – c’è bisogno di giornalieri. E più che di comunicatori, quindi c’è urgenza di faticatori e questa Scienza che è parente stortignaccola di ciò che fu il Dams di Bologna, quello di Umberto Eco, quello – per l’appunto – della mistica tossica disegnata e narrata da Andrea Pazienza è pur sempre, nella migliore delle ipotesi, parto di una gestazione: il passatempo. Così come nella peggiore è solo un surrogato. Di un altro surrogato: il pezzo di carta».

Se a qualcuno viene in mente la polemica contro il liceo classico, e l’esultanza di certi settori per il calo di iscritti, evidentemente ha troppa elasticità mentale. E presto verrà messo alla berlina. Pensare, e soprattutto cercar di capire, è da (disoccupati) sovversivi.