Foto di | E = mc2 | Le retribuzioni degli insegnanti italiani? Ad andamento “piatto”. Gli stipendi sono rigidamente ed ineluttabilmente ancorati all’anzianità di servizio. Ma se il risultato poi è niente meritocrazia, allora  la conseguenza è il “disinteresse verso la scuola”. Ci sono insegnanti – conosciuti anche di persona – che coltivano, ricercano, si impegnano, innovano, e magari ottengono pure splendidi risultati. Del loro lavoro però – se va bene – non si accorge che qualche genitore (gli altri magari lo insultano perché “non fa il programma”), probabilmente il loro dirigente, ma  men che mai chi gli paga lo stipendio.

«Oggi si comincia ad avvertire una carenza di docenti: per ben 1.500 delle circa 8.000 graduatorie i posti disponibili superano o stanno per superare gli insegnanti alla ricerca di un’ occupazione». E’ una delle constatazioni (già anticipate qui) di un intervento di Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Giovanni Agnelli, pubblicata sul Corriere del 29 giugno e che non ha invece sollevato – come sarebbe stato auspicabile e immaginavo – un dibattito. Mica tanto, solo una discussione, né chiassosa, né pacata. Eppure quell’intervento merita (come altre sue prese di posizione) di finire nel taccuino di chi vuol salvare la scuola pubblica, evitando magari di affossarla con tagli indiscriminati di risorse e accantonamento di fondi per sovvenzionare le “private”.

Per una singolare “coincidenza” l’intervento, pubblicato in taglio basso su una pagina pari, è comparso nello stesso numero che ospitava la lettera a Napolitano di Rita Cle­menti, la ricercatrice precaria cacciata negli Stati Uniti dall’imperante “antimeritocrazia” italiana. Argomento che ha fatto di nuovo esplodere il tema “ricerca”.«Il sistema antimeri­tocratico – ha scritto – danneggia non solo il singolo ricercatore precario, ma soprattutto le persone che vivono in questa Nazione». E la Clementi ha posto un quesito “centrato” non tanto sull’entità degli stanziamenti, quanto sul modo in cui si usano: «È sufficiente, anche in Italia, incrementare gli stanziamenti? Purtroppo no. Se il malcostu­me non verrà interrotto, se chi è colpevole non sarà rimosso, se non si faranno emergere i migliori, gli onesti, dare più soldi avrebbe come unica con­seguenza quella di potenziare le lobby che usano le Universi­tà e gli enti di ricerca come feu­do privato e che così facendo distruggono la ricerca».

Ma torniamo al disinteresse, specie al nord e nelle materie scientifico-matematiche, verso la carriera di docente, non quello universitario, ma quelle professione che una volta equivaleva a prestigio e benessere (nei paesini era un’autorità al pari di sindaco, parroco e maresciallo). Non interesserebbe più, secondo la Fondazione Agnelli,  i giovani talenti. «La ragione – osserva Gavosto – è semplice: un giovane laureato in materie scientifiche che lavora fuori della scuola guadagna in media il 30% in più di uno che insegna. La scuola per questi laureati non è attraente e, in molti casi, deve accontentarsi di chi non ha trovato occupazione altrove».

Ecco cosa suggerisce Gavosto, un’idea che mi sembra condivisibile – se non al 100 per cento, poco ci manca – e magari non piace ad un certo sindacato:

Solo adeguando le loro prospettive di guadagno, sarà possibile convincere i migliori laureati in queste discipline a dedicarsi all’ insegnamento. Infine, si dice, va premiato il merito degli insegnanti. Il principio è corretto, ma generico e si presta a un eccesso di retorica. Differenziare in base ai risultati degli studenti in termini di conoscenze e competenze appare un criterio meglio definito. Si premino allora gli insegnanti di quelle scuole dove i ragazzi ottengono risultati migliori. Si badi: non necessariamente i risultati migliori in assoluto; così, infatti, si finirebbe per favorire le scuole – tipicamente i licei – frequentate da chi è avvantaggiato dalla provenienza sociale e dal maggior sostegno della famiglia. Occorre invece valutare e premiare i progressi compiuti dai ragazzi tenendo conto del loro livello all’ ingresso e del loro retroterra economico e culturale, il cosiddetto «valore aggiunto» della singola scuola. Così si valorizzerebbe il lavoro degli insegnanti anche nelle situazioni meno favorevoli, contribuendo a elevare la qualità media del sistema scolastico e ad attenuarne gli insostenibili divari territoriali.