Foto di Xosé CastroCrollano i quotidiani. Quelli italiani, non quelli americani di cui tanto si è parlato. A preannunciare la crisi prossima (s)ventura è stato Carlo Malinconico, presidente della Fieg, la Federazione italiana editori giornali. Per il 2008 le perdite sono state del 100 per cento. E gli altri numeri non sono confortanti. Gli investimenti pubblicitari sui quotidiani, nei primi due mesi del 2009, sono diminuiti in media del 25 per cento, con punte anche del 60 in alcuni giornali locali. Chi sono i colpevoli? «Internet – ha detto Malinconico – che si alimenta dell’assenza di regolazione e dell’appropriazione dei contenuti editoriali altrui». E poi la rete distributiva che non è informatizzata, è costosa e poco efficiente. Quindi la struttura del mercato pubblicitario che è fortemente squilibrata a favore della televisione. Ed infine – “Governo ladro” – «mancano significative azioni pubbliche di promozione della lettura». Quindi giù la lista di richieste degli editori per sostegni, agevolazioni e prebende pubblici.

Nemmeno una parola sui prodotti che arrivano in edicola. La qualità sembra infatti doversi ricondurre a quella «immedesimazione del lettore col giornale che è un tratto distintivo dell’editoria». Sempre il presidente degli editori: «I periodici, poi, da tempo realizzano quello che viene definito engagement, cioè fidelizzazione del lettore e condivisione di uno stile di vita, al punto di individuare, ancora prima di Internet, comunità di fruitori accomunati da un’analoga passione, sia questa la passione per la macchina, la moda, la casa o altro». Forse poco centrato, benché da fonte autorevole come chi “ci mette i soldi”. Se non altro se si vanno a prendere in mano i giornali in edicola. Articoli velina, o letture ideologiche e a tesi della realtà (e del dibattito politico). Autoreferenzialità per saziare la casta, soft news per non urtare l’inserzionista o – dipendendo molto dai fondi pubblici – il timoniere. Resoconti dell’insulto quotidiano, cronache emotive e incapacità di andare oltre a quello che propone il mainstream della comunicazione. Tutti così, tranne poche eccezioni. Non c’è allora da meravigliarsi se il 68 per cento degli italiani – nel 2008 – ha dichiarato di ritenere i giornalisti bugiardi, il 60 per cento poco informati ed il 52 per cento non indipendenti (indagine di AstraRicerche presentata a Milano nell’ottobre 2008 in un convegno dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia).

La “qualità” evidentemente non può passare per l’immedesimazione del cliente col prodotto. L’argomento  colpisce l’immaginario dell’investitore pubblicitario, non c’è dubbio. Ma la “qualità”, quella che fa vendere, forse però passa altrove. Magari proprio per la capacità di offrire al lettore – di sicuro utente “diverso” e più evoluto rispetto all’orizzonte di attesa della bistrattata casalinga di Voghera (ammesso che esista come soggetto e non come ruolo contestuale al solo frangente del consumo televisivo) – quel qualcosa in più e diverso della massa di informazioni che, come cittadino monitorante (Michael Schudson), sa cercare e selezionare da solo. Che il panorama del lettorato sia cambiato lo sanno bene pure alla Fieg: «La convergenza tra le tre tecnologie “dominanti” – ha sostenuto sempre Malinconico – rete, televisione e computer, non ha portato però all’emersione di un unico medium, che emargina tutti gli altri. Ha spinto, invece, alla creazione di un ambiente “ipermediato”, caratterizzato da un flusso continuo di informazioni che procedono a cascata da un medium all’altro fino a raggiungere il destinatario». Visione pull anziché push della fruizione delle informazioni a parte, la visione è condivisibile. Ma quando ci si accorgerà che i giornali non sanno più dare al lettore quel che da solo non può scoprire? Quando si valorizzerà lo “specifico” professionale del giornalista nello scovare – in maniera investigativa o anche semplicemente di prospettiva “intelligente” – le notizie o gli aspetti di esse di difficile accesso ai più?

La sintesi di Lsdi