World mosaic: a tribute to flickr portraits (foto di pardeshi)Abbiamo più di un coscio di pollo sulla coscienza. In Europa ne mangiamo gran quantità, assieme al petto. Questione di gusti. E su di essi, per definizione, non si dovrebbe discutere. Solo che – nonostante le vaschette del supermercato possano magari averci convinto che esistono volatili a quattro o otto zampe – il resto della parti dell’animale finisce congelato sui mercati africani (o nel cibo per cani). Ha cercato di farcelo capire – almeno un lustro fa – la Roppa, sodalizio di agricoltori dell’Africa occidentale. Ma abituato a guardare nel piatto dove mangio, sono arrivato solo ora alla percezione del danno.

Soddisfatto il mio piccolo mondo, ho pronunciato inconsapevolmente il mio “chissene” postmoderno. In fondo è quasi la stessa logica che ti rende felice se hanno abolito l’Ici. Poi non ti accorgi che il tuo Comune non ha più soldi per i servizi sociali. Servono a te? No? E allora, “chissene”. Al posto del “libertà, uguaglianza, fraternità” siamo – come annota Zygmunt Bauman – nel pieno della “sicurezza, parità, rete”. Sicurezza la mia, parità la mia e la possibilità di collegarmi a chi mi serve quando mi serve. “La società pensala, ma non la far”, dice un motto delle mie terre.  Tutti valori che mi interessano come individuo, mica come parte del mondo. E della comunità? “Chissene”. Non è l’equivalente del “me ne frego” dei legionari fiumani, niente evocazioni fasciste per carità: lì, nella versione dannunziana (o presunta tale) me ne frego indicava “coraggio”. Il “chissene” qua è indifferenza pura.

La notizia che mi turba è vecchia, risale al Wto 2005: i prezzi stracciati del pollo senza cosce né petto farebbero una concorrenza spietata agli avicoltori africani, mandandoli sul lastrico. Stesso dicasi per i prodotti agricoli superfinanziati dalla Ue che arrivano in mercati dove le aziende sono a livello familiare. Come commentare poi gli effetti  della controversa liberalizzazione per le merci in entrata in Africa. Per non dire di quando qualcuno ha l’idea – derivata dallo schiacciamento delle mille realtà povere del mondo sullo stereotipo del “continente della fame” – di regalare cibo in zone dove magari se ne produce già. Dove insomma magari la fame non c’era, si finisce per crearla con il dumping della solidarietà. E magari siamo pure convinti di aver fatto una buona azione.

Sempre nel 2005, a Gleneagles in Scozia, i sette Grandi stabilirono un piano per raddoppiare gli aiuti al continente nero portandoli a 50 miliardi di dollari l’anno, ciascuno in proporzione alle proprie possibilità. Alla conta – nel Data Report 2010 di One, l’organizzazione di Bob Geldof e Bono – i Paesi più industrializzati escono con una figura barbina. A livelli diversi. Se gli Usa tengono la testa alta, hanno dato più del previsto, l’Italia si è distinta per aver ridotto il budget del 6 per cento, cioè a meno 238 milioni di euro. Geldof vorrebbe farci cacciare dal G7 solo per questo. Esagera, al solito. Ma la “magra” è fatta. Ovviamente c’è chi chiosa sereno, con un bel “chissene”.

D’altronde noi ora siamo nei guai. Lo eravamo già, ma ce ne siamo accorti solo adesso. Come quando ti svegli di colpo. Tagliamo fondi, congeliamo aumenti. C’è la crisi. “Chissene” dell’Africa, allora. Guardiamo oggi nel nostro piatto e, domani, quando alzeremo gli occhi, magari scopriremo che a tavola con noi si siedono masse di diseredati. Dove? Ma nelle nostre città, non basteranno Cie (i Centri di identificazione ed espulsione) o altre trovate in stile leghista a contenere con un dito il getto dell’idrante demografico. L’etichetta “Terzo Mondo” va delocalizzata, sarà – e già in parte lo è – sotto casa nostra, in qualche “non luogo”: uno svincolo, un ponte, un argine di fiume. Altro che un continente del sud del mondo. E’ qui da noi, in un posto anonimo per invisibili. Invisibili nel senso che non vorremmo vederli. E poi se mai li dovessimo scorgere, chiederemo siano spostati altrove.

La figuraccia globale degli aiuti dimenticati, ammortizzabile con le solite considerazioni sul “come” vengono malamente spese le risorse per l’Africa, ci mostra il volto di quel che siamo diventati. Non è un problema italiano, però, è endemico al pianeta. Noi ne decliniamo la nostra versione nazionale (in termini di cultura, non certo di Nazione).

A scuola abbiamo il fondo di solidarietà – un euro l’anno, poco più di un caffé – per aiutare i ragazzi che non possono permettersi di pagare la gita d’istruzione? “Chissene” di versarlo, perché alla gran parte dei genitori viene in mente la “banale” considerazione: «Ma cosa ne torna a mio figlio?». Se non vanno, fatti loro. C’è chi non ce la fa a pagare la mensa: che resti come ad Adro a pane e acqua. E “stronzo” l’imprenditore che salda il debito: «Aiuta i furbetti».

Genere di furbizia diversa, evidentemente, di quella che solleva tacita ammirazione verso chi evade il fisco o fa il suo bravo abuso edilizio, mangiandosi – che ne so? – il marciapiede. Condonerà, prima o poi. E, magari, quando un domani dovranno allargare la strada, l’esproprio verrà esercitato sul terreno di quel pollo di dirimpettaio che – per non far illeciti – ha rispettato sull’altro lato le distanze dal ciglio stradale. Non ha muretti da abbattere, il condonato sì. E quindi aggredire la proprietà dell’onesto costerà di meno al Comune, che – d’altro canto – ha già i suoi bravi guai per la scomparsa della solita Ici di cui ciascun si era rallegrato. Vae victis, guai ai vinti. E “chissene”.