“Tutto è permesso, tranne quel che è probito”. Un epigono Jacques II de Chabannes de La Palice – cui è attribuito l’epitaffio Un quart d’heure avant sa mort, il était encore en vie (Un quarto d’ora prima della sua morte, era ancora in vita) – vuol riscrivere la Costituzione. Proprio così. La riforma dell’articolo 41 della Carta della Repubblica italiana – senza la quale, secondo certi soloni, non ci sarebbe libera iniziativa privata – dice infatti proprio questo: «L’iniziativa economica privata è libera». Punto. Nulla di più. Tana libera tutti e un bel pernacchione ai costituenti. Sarebbe da sbellicarsi dalle risate leggere una tale non norma su una carta costituzionale, se non fosse vero.

Come vero è il livello giuridico – e politico – di chi fa questo genere di proposte. Un test? La cancellazione delle Province, da farsi per legge ordinaria anziché costituzionale. E’  la Costituzione a prevedere quel tipo di ente locale. A meno che qualche furbetto legislatore abbia letto la Costituzione pubblicata sul sito del Senato dove compaiono le “Provincie”, con la “i”, e abbia pensato di spacciarlo per un altro ente. Un decreto adottato poi senza riflettere che l’ iniziativa sarebbe spettata alle popolazioni residenti (sempre come previsto dalla “centralista” – altra baggianata quella di chi sostiene questa natura “non decentrata” – Carta del 1947). In realtà c’è di peggio. C’è la profonda e antidemocratica convinzione che i numeri debbano prevalere. Sì, è un’idea antidemocratica come tutte quelle che si prendono gioco delle minoranze e che fanno sentire magari  chi vince le elezioni al di sopra della (liberale) divisione dei poteri o sull’altrettanto liberale corte costituzionale.

“Cancelliamo le Province sotto i 300 mila abitanti o quelle più piccole di 3000 kmq” è stato detto. Tradotto: cancelliamole dove ci sono meno elettori, dove se qualcuno grida si sente di meno. Anche perché, in genere, stanno pure lontani tra di loro e non riescono a coordinarsi (se non ci fosse una Provincia a farlo per loro). Il risparmio? Solo 300 milioni di euro, come paradossalmente calcolato dall’Istituto Bruno Leoni che vorrebbe l’abolizi0ne totale, il miliardo e 700 milioni di spese restanti – quelle per le Province maggiori – resterebbe intatto. In fondo è la stessa logica che fa “tagliare” letti negli ospedali di paese, anziché nelle grandi città. Solo che se cancelli l’assistenza sanitaria in cima ad una montagna getti nella disperazione villaggi interi, se elimini un po’ di posti letto in aree dove ce ne sono tanti pochi se ne accorgerebbero. Ma l’antidemocratica legge dei numeri non permette ai decisori – saldi sulle loro poltrone e dietro le loro scrivanie – di vedere oltre ad un foglio di Excel. Logica vorrebbe quindi che laddove le entità sono minuscole, gli enti esponenziali delle comunità siano preservati e rafforzati, mentre dove le Province coincidono con realtà metropolitane, nelle quali la funzione di raccordo e rappresentanza è svolta dal Comune, sarebbe economicamente e socialmente utile eliminarle. Bisognerebbe cancellare le Province più grandi, non quelle più piccole. Ma vai a farglielo capire, l’onda della propaganda populista non si è abbassata ancora.

E’ troppo difficile arrivare a questa semplice conclusione, come troppo difficile è far capire a questi ragionieri, improvvisatisi architetti istituzionali, che cancellando le piccole province non riusciranno mai a far a meno delle circoscrizioni provinciali per gestirle. Il che equivale a mantenere in piedi l’apparato burocratico e organizzativo: personale e uffici dunque, che costeranno tanto quanto oggi. Cancellerebbero solo i costi della politica e con essi la voce dei territori (ma tanto chissenefrega – penseranno – sono pochi voti e per fortuna c’è sempre la tv – unico bene rifugio in realtà destinate ad esser sempre più vecchie e abbandonate – per chieder loro una croce su una scheda).

Che la logica rovesciata dei numeri sia imperante e deleteria lo dimostra anche l’operazione accorpamento dei piccoli comuni. Anziché pensare a dividere meglio le grandi città in tante piccole città – si campa meglio a Cremona o a Perugia, che non in un quartiere di Roma – ci si affanna a unire i piccoli borghi di montagna. Si risparmia, ci vengono a dire. Cosa? Tutti assieme i costi della politica nei piccolissimi comuni fanno 6 milioni di euro (in una manovra da miliardi), mentre gli assessori di quei luoghi possono, in virtù delle leggi vigenti, fare pure da impiegati comunali senza poter pretenderne lo stipendio… E nel frattempo, annullando le micromunicipalità, si cancella quello che i giuristi chiamano l’ente esponenziale della comunità locale. Il che tradotto significa semplicemente cancellare la voce delle minoranze. Viva la democrazia.