Rischieremmo tutti l’antinuclearismo emotivo. Dire “no” all’energia atomica dopo il dramma giapponese sarebbe – secondo i sempre più stralunati sostenitori dell’energia atomica – farsi prendere da un’irragionevole emozione. In fin dei conti, dicono, anche una diga idroelettrica che crolla o una centrale a gas che brucia sono catastrofi alla pari di Fukushima. Catastrofi, appunto. Nella drammaturgia greca erano l’improvvisa risoluzione dell’intreccio, la katastrophè. Trattandosi di teatro viene da sé che i colpi di scena improvvisi provocano emozioni, anche violente. Quindi una centrale nucleare che va verso la fusione per colpa di uno tsunami provoca emozione.

Non tutte le catastrofi, però, sono calamità. In latino calamus era lo stelo della biada e i contadini romani chiamavano calamitas una malattia del gambo delle spighe, che provocava un risultato simile a quello delle grandinate. Da lì usare calamità per rappresentare le sciagure che producono risultati prolungati nel tempo il passo era breve.

Il Vajont fu una catastrofe, ma non una calamità come Cernobil. L’amministratore delegato di Enel, Fulvio Conti, si affanna a ripetere che in Giappone non ha retto allo tsunami una delle 52 centrali nucleari, le altre – grazie a Dio – stanno tutte bene. Ma anziché dimostrare che quella tecnologia è sicura, Conti dimostra, paradossalmente, che ne basta anche una sola di centrale per provocare radiazioni ed effetti destinati a durare nel tempo. Fukushima non solo è una catastrofe con i suoi morti e le sue esplosioni, è pure una calamità: Tokio è già contaminata. Il commissario Ue all’Energia, Gunther Oettinger, l’ha definita un’ “apocalisse”. Ma il ministro italiano all’Ambiente, Stefania Prestigiacomo, chiede non nasca «neppure un allarmismo rispetto a una situazione eccezionale, una calamità che è stata definita un’apocalisse in un Paese ad altissimo rischio sismico».

Frattanto – forse perché all’estero sono meno freddi dei governanti italiani – la cancelliera Angela Merkel ha deciso di spegnere non due, ma ben sette centrali tedesche. Invece di chiedersi se sia impazzita, magari mettendo a rischio energetico un grande Paese – che da tempo invece investe nelle rinnovabili e nel risparmio energetico in vista di un abbandono graduale della tecnologia più pericolosa che si sia mai usata – i nuclearisti italici sogghignano: “Erano vecchie, anni ‘80, le nostre saranno di terza generazione”. Già, ma tutte le tecnologie invecchiano e l’imponderabile – quello che sta dietro a tutte catastrofi, altrimenti sarebbero tutte prevedibili e quindi non più tali – invece non invecchia mai. Se brucia una centrale termoelettrica i danni per l’atmosfera saranno certo destinati a durare anni. Ma se salta un impianto atomico si parla di secoli, mica di lustri.

In Italia il 12 giugno si tornerà a votare per impedire il nucleare. Soldi sprecati due volte: primo perché avevamo già detto “no, grazie”, secondo perché nella speranza che la gente vada al mare si buttano 400 milioni di euro. Appena dico che il mio sarà un “sì” abrogativo riparte la litania delle centrali svizzere, francesi, tedesche e via enumerando i confinanti italiani dotati di nucleare. “Se saltano loro, ci sarà poco da fare: quindi costruiamone di nostre”. Nessuno che invece dica: “Sono dei pazzi, ci mettono a rischio pure a noi: perché non le spengono e si convertono alle rinnovabili?”.

A questo punto il nuclearista convinto ti sollecita a calcolare i costi dei pannelli fotovoltaici. Quelli di costruzione dell’atomo invece scherzano: un rapporto del Massachusetts Istitute of Technology (MIT) del 2009 ha calcolato che dal 2003 i costi per la costruzione di un impianto sono cresciuti del 15% all’anno. Questo significa che il costo di un impianto nucleare negli ultimi 5 anni è raddoppiato. “Ma il fotovoltaico poi inquinerà perché vanno smaltiti gli impianti obsoleti”. Verissimo, ma cosa sono di fronte ai millenni delle scorie radioattive?