Anche negli uffici postali periferici usano la triage. Prima passano quelli che devono versar soldi, ultimi quelli con le raccomandate. Follie di Poste italiane.
Anche negli uffici postali periferici usano la triage. Prima passano quelli che devono versar soldi, ultimi quelli con le raccomandate. Follie di Poste italiane.
L’Italia fuori da un Mondiale anacronistico. E non per colpa della Nutella della colazione rimasta sullo stomaco dei giocatori. Le sfide sono tra Nazioni, il calcio invece non è un più gioco, ma un business senza Patrie.
Oggi, e non per merito di Michelle Obama, lo “zappettare” è divenuto di gran moda. Non tanto nei campi, dove la meccanizzazione ha tolto di mezzo anche quel poco di socialità che ti dava – per dirne una – il raccoglier dai rami le olive anziché sbatterle in solitaria con qualche assordante scuotitore. Ma l’agricoltura dell’orto spunta adesso tra aiuole urbane, pezzi di verde incolto e, capita alle porte di Roma, perfino in un singolare sporting club: anziché armeggiare con racchette o mazze da golf, all’Agroclub i soci si destreggiano con gli attrezzi agricoli. Zucchine, insalata, fagiolini e pomodori sono curati in pezzi di terra pronti alla semina, che gli iscritti lavorano e dai quali raccolgono il frutto delle loro fatiche. Se saltano il turno – causa altri impegni – dribblano la massima contadina che “l’orto vuole l’uomo morto” grazie all’opera “tappabuchi” degli ospiti di una casa famiglia.
Legambiente, nel 2008, si era posta l’obiettivo di creare 100 orti sociali nella Capitale d’Italia nel giro di 12 mesi. Lo scorso febbraio ha raddoppiato l’altezza dell’asticella a 200, firmando un accordo con la Regione. Sarà per questo che alla Garbatella, proprio dalle parti del palazzone che ospita il governo del Lazio, da qualche mese 15 appezzamenti di 40 metri quadri, di cui due a scopo didattico, sono stati assegnati al Coordinamento orti urbani Garbatella – sì, il quartiere dei famigerati “Cesaroni” – per quattro anni. E’ un’insieme di associazioni e hanno dato vita ad un orto comunitario. Si zappa pure sulla Cristoforo Colombo insomma, neanche troppo lontano dove oggi c’è un traffico colossale e un domani potrebbero sfrecciare i bolidi di Formula 1. Un’amica, orgogliosissima, mi ha anche mandato una foto via mms della terra lavorata dicendo che quello è il suo zapping preferito.
Un’altra di amica, invece, mi raccontava – fino a qualche tempo fa – delle sue coltivazioni sul balcone in città. Roba piccola, mi par di capire, ma di gran soddisfazione per lei. E’ milanese e – scopro solo adesso da un dossier de Il Sole 24 ore – che nel capoluogo lombardo il far orti è una prassi antica e pure benedetta da qualche padre nobile dell’imprenditoria meneghina: lo volle addirittura, al Centro sociale della Rizzoli, niente di meno che Maria Giulia Crespi. Lo stesso pezzo mi informa che tutto questo movimento di agricoltori cittadini ha pure risvolti istituzionali, con il progetto “Orti Urbani” di Italia Nostra in collaborazione con l’Anci, l’associazione nazionale dei comuni italiani.
Di fronte a tutto questo fiorire – letteralmente – di iniziative neoagricole all’interno del perimetro urbano, nonostante l’ammirazione per questo sforzo salutista e per il pervicace inseguimento del “chilometro zero”, mi rimane però fisso un dubbio. Quanto saranno salubri quegli ortaggi raccolti a due passi dagli scarichi, in città colme di polveri sottili e surriscaldate? Forse però questo interrogativo me lo fa porre quella mia innata e ineliminabile allergia per il lavoro nei campi i quali una volta, per innaffiare dei fagiolini, mi presero prigioniero nel fango. Oppure è colpa di quel gesto da neodiplomato che mi fece “archiviare” in uno sgabuzzino – beninteso agricolo – il principale dono per la mia Maturità: la zappa.
«Ho trasferito il capannone in un altro Comune – ha raccontato Marco Colombo, presidente dei giovani di Confartigianato – Ho dovuto chiedere il nulla osta per inizio attività come se ricominciassi daccapo, poi sono andato alla Asl, all’Arpa regionale, dai Vigili del Fuoco, ripresentando ogni volta la stessa documentazione». Come non dargli ragione? Basterebbe un’autocertificazione e via. Se la pubblica amministrazione non blocca, il suo tacere significa che ha dato via libera all’inizio dell’attività. Anzi, per esser precisi, il suo “silenzio assenso”. Gian Antonio Stella, da acuto osservatore dell’Italietta, ha però messo tutti sull’avviso : senza controlli, sarebbe la pacchia dei “furbetti del certificatino”. Con buona pace della libertà di farsi concorrenza a parità di condizioni.
Che il “silenzio assenso” sia un’arma a doppio taglio lo ha riferito a suo tempo Girolamo Sirchia, ministro della Sanità nel 2005. Raccontò alla Camera che per ben due volte un paziente era stato curato a Marsiglia a spese delle casse pubbliche. Tutto fatturato. «Trascorsi invano i 90 giorni utili, secondo il principio del silenzio-assenso, il credito diviene esigibile» aveva spiegato Sirchia. Peccato che quel cittadino altri non fosse se non l’allora latitante Bernardo Provenzano. Sotto falso nome, beninteso. Magari avrebbe buggerato – così riferirono le cronache di allora – la Regione Sicilia allo stesso modo pur senza meccanismi semplificatori. Ma l’episodio, anche se fosse solo di scuola, la dice lunga su come potrebbero finire certe cose in Italia: se accorci i termini, non acceleri le procedure, fai solo andar prima in prescrizione il diritto dello Stato.
Quando un matrimonio non è insostenibile. Il caso di chi in 2 mesi, e spendendo 1/3, si è sposata a basso impatto. Tutto era sostenibile, perfino le foto.