Ho fatto le elementari negli anni Settanta. Perfino allora se mi avessero detto che un giorno la Sardegna avrebbe cercato di proclamare la sua indipendenza da quell’Italia che tanti sardi, cento anni prima, contribuirono ad unire, non ci avrei creduto. Se mi avessero raccontato che dell’Unità d’Italia e della nascita della Repubblica non se ne sarebbe parlato a scuola se non in terza media, li avrei presi per folli. Se mi avessero stampato sul banco lo stemma di un qualsiasi partito politico, avrei visto i miei genitori protestare fuori dall’edificio scolastico. Così come se si fosse ascoltato un ministro elogiare un teorico della separazione dello Stivale in tre regioni o contestare cittadini sventolare una bandiera tricolore per le calli di Venezia, qualcuno avrebbe intonato – per tutta risposta – un canto patriottico. Ed eccomi così oggi a celebrare il 20 settembre, una data che a tanti – adulti inclusi – ormai dice più poco o niente.

Non un’istituzione ad organizzare la posa della corona, ma un gruppo di cittadini – d’altro canto è dal 1929 che non si festeggia più ufficialmente la presa di Porta Pia. Un piccolo centro alle porte della Capitale, lontano dagli squilli di tromba mattutini, ha così realizzato nel pomeriggio la singolare, ma pluralista, manifestazione. Mentre ci arrivavo alla radio Predrag Matvejevic, scrittore nato bosniaco da padre russo e madre croata, che scrive in francese e ha il passaporto italiano, sottolineava quanto il termine “identitario” in altre lingue – tra cui appunto il francese – ha un valore negativo. Chiudersi nella particolarità, come totale, porta infatti a guerre ed ingiustizie. Chi viene dalla ex Jugoslavia sa bene cosa significhi. Ed allora quella breccia che ruppe lo Stato della Chiesa ha rappresentato l’ingresso dell’Italia nella dimensione laica, quella che separa il potere temporale da quello – sacrosanto per ciascun credente – spirituale. In Italia non si tagliarono teste, si ruppero le Mura di Roma. Fu meno cruenta. Ma la parola “identitario”, però, non assunse mai quel senso dispregiativo di “particolaristico” che Oltralpe le viene dato.

Ecco allora che si apre la strada oggi, metaforicamente passando magari per quelle vie dedicate al 20 settembre che quasi ogni comune italiano ha, dalla breccia di Porta Pia a quella che è la caratteristica ineliminabile della Costituzione repubblicana: il pluralismo. C’è chi vorrebbe farne carta straccia, è vecchia si dice, ed allora – mentre in quegli anni Settanta la parola Patria suonava a qualcuno come reazionaria – ecco che ci ritroviamo, come cittadini, a sventolare il tricolore. Forse siamo in pochi, e se lo siamo davvero questo la direbbe lunga sul senso della parola stessa cittadino che ha lasciato il passo, nella visione di tanti, a quella di individuo. E’ un’illusione libertaria quella dell’individualismo, di uno strisciante menefreghismo che chiude il mondo nelle mura di casa. Altre mura nelle quali far breccia, come i Bersaglieri le fecero allora.

Gli individui  per definizione sono soli. E da solitari hanno paura, diventano diffidente ed aggressivi di fronte all’altro,  temono la molteplicità “minacciosa”, e per districarsi devono farsi aiutare dai cliché: quelli stessi che assimilano, ad esempio, la parola romeno – che viene da romano, unico popolo di lingua latina tra gli slavi quello della Romania – a rom (che deriva invece dalla lingua indoeuropea romaní o romanes parlata da rom e sinti). Sono gli indizi sommari insomma che di fronte alla complessità ti portano a ridurre il mondo per gestirla, quegli stessi che possono indurre la polizia londinese ad arrestare sei netturbini di una ditta privata che lavorava nei paraggi di Westminter, dove il Pontefice nei giorni scorsi era atteso per un discorso. A renderli “sospetti” era stato un frammento di chiacchierata tra il serio ed il faceto captata a mensa da un collega e, diciamocelo, l’essere costoro di origini algerine. Algerini e musulmani: prevenire è meglio che curare, anche se magari agli stessi agenti la faccenda puzzava di cantonata – come poi verificatosi puntualmente – lontano qualche miglio. D’altronde l’11 settembre fu preceduto dall’incapacità di gestire la complessità degli indizi.

Jean Charles de Menezes aveva 27 anni, quel 22 luglio di cinque anni fa, il giorno dopo quattro falliti attentati alla Metro di Londra che seguirono quelli invece tragicamente andati a segno il 7 dello stesso mese. Brasiliano, aveva un volto che somigliava troppo a quello “canonico” di un terrorista mediorientale. O, perlomeno, avrebbe dovuto somigliargli a tutti i costi. E così venne freddato da agenti dell’antiterrorismo con sette colpi di pistola nella testa all’interno della metropolitana. Oggi quello stesso volto – all’esterno della stazione di Stockwell, a Londra – è effigiato, per volontà dei familiari, in un mosaico. Ci si può passare davanti indifferenti, da individualisti quali siamo diventati, come si resta immoti di fronte ad una targa del 20 settembre con una corona in memoria appena depositata. Oppure ci si può fermare un attimo a riflettere e a reagire. Da cittadini.