Una sequenza del primo episodio della quarta stagione di Black Mirror.Black Mirror è una serie, con un suo mondo, un suo tempo e un suo luogo. Oppure è un’antologia di episodi tra loro scollegati, accomunati soltanto dai paradossali incubi tecnologici che caratterizzano ciascuna storia? La domanda sta agitando i fan, soprattutto dopo la messa on line su Netflix della quarta stagione. Nelle puntate sono disseminati degli indizi, come un banale lecca lecca, che sembrano voler collegare tra loro gli episodi. “Please Don’t Let ‘Black Mirror’ Be a Shared Universe”, titola Wired.com, invitando a non far scivolare i singoli episodi di Black Mirror all’interno di un universo condiviso.

Black Mirror: perché la consideriamo serie?

In realtà l’interrogativo sembra slittare su un altro: perché, nonostante sia un’antologia,  consideriamo Black Mirror una serie? Pensiamoci bene, se ne parliamo ci riferiamo a essa come una serie. Forse è proprio il fatto di essere su Netflix, piattaforma votata alla visione compulsiva di un episodio dietro l’altro (binge-watching), a costringere oggi la produzione a disseminare in Black Mirror, pur se antologica, qualche indizio di serialità per rendere più esplicita tale natura? A ben vedere si tratta di uno sforzo inutile. Non serve introdurre negli episodi delle easter eggs, “oggetti” che – quando individuati – si traducono per gli spettatori più fedeli in piccole citazioni di altre puntate. Citazioni destinate a dare un legame, a creare appunto un universo condiviso dalle varie storie? La serialità è probabilmente percepita da noi pubblico per altre vie. E da stimoli che riceviamo quotidianamente, uno dei classici fattori di successo per i prodotti che “ti restano in mente”.

Se i protagonisti siamo noi

La locandina di Eternal Sunshine of the Spotless Mind ( Se ti ami ti cancello )Il tempo e il luogo che ci propone Black Mirror è un futuro talmente così prossimo da essere, talora, indistinguibile dal presente. Un’operazione simile, come ambientazione e racconto, è già riuscita – ad esempio – nel 2004 a Eternal Sunshine of the Spotless Mind (Se ti ami ti cancello) di Michel Gondry con Jim Carrey. Le atmosfere sono plausibili, quel che accade solo un poco più in là del presente. Ci riconosciamo in quei personaggi. Quegli episodi siamo noi a viverli, perché ci ritroviamo in quel racconto, che ci appare verosimile, seppur  inquietante e paradossale. E, per questo, affascinante sebbene fantastico, tanto da indurci a un consumo ripetitivo degli episodi della serie. Amiamo i protagonisti, perché sono nostri simili. Non è difficile immedesimarsi o vedervi qualcuno che incontriamo o potremmo incontrare nella vita di tutti i giorni. Avviare la riproduzione di un episodio, ripete e declina un’azione, la nostra, che potremmo ritrovare sullo schermo. La serialità non è nel supposto universo condiviso. La serialità è nei personaggi – pur diversi di volta in volta – sui quali c’è qualche aspetto di noi che si proietta.

Black Future Social Club a Milano

A confermare come plausibile questa lettura è stato pure un evento promozionale di Netflix, organizzato al BASE di Milano il 13 e 14 gennaio 2018. Al Black Future Social Club l’ingresso era gratis per chi avesse avuto più di mille follower su Instagram. L’idea era quella – come ha scritto Vivimilano – «di immergersi nell’atmosfera della seguitissima serie, fra un bar del futuro in cui si paga “con i followers” e una forte attenzione al mondo dei social network, come accade in vari episodi». «Un piccolo assaggio di Black Mirror nella realtà – ha testimoniato su Facebook Anna Sidoti, una delle partecipanti – anche se in verità devo dire che la cosa più inquietante è stato il vedere/sentire che non molto cambiava da un ristorante normale, con il #foodporn, le angolazioni, le foto prima del pasto e la conta dei likes». Non molto cambiava, perché l’universo condiviso sullo schermo confina con l’universo condiviso della nostra esistenza “reale”. Quella in cui i protagonisti – seriali – siamo noi.

Le serie antologiche degli anni 50

Gli antenati televisivi di Black Mirror – sul piano formale – possono essere individuati in Alfred Hitchcock presenta e Ai confini della realtà (Twilight Zone). Ma quelli erano telefilm per la tv nati tra metà e fine anni 50, in un’epoca nella quale gli episodi erano autoconclusivi anche per ragioni pubblicitarie. A renderli unitari e ripetitivi era la cornice data dal genere: noir quello presentato da Hitchcock e straniante e paranormale quello di Twilight. I protagonisti variavano, le storie pure. Prodotti antologici, questi due, creati per un flusso continuo analogico, nel quale lo spettatore non si costruiva il palinsesto e i tempi di consumo (era tutta un’altra televisione). Con Netflix, nella maggior parte dei casi non è così: è lo spettatore al centro, è lui a gestire la visione, a spostare il cursore o a scegliere i tempi di visione. Fino, però, a divenirne dipendente, se magari la storia è avvincente, il mistero o il fascino del racconto e dei personaggi lo rapiscono e magari i cliffhanger sono piazzati opportunamente. Black Mirror non sembra nata per questo. Ma nella piattaforma di distribuzione su cui si trova l’opportunità di un consumo bulimico e ripetitivo è implicita nel mezzo stesso.

Un universo c’è. Ma non serve saperlo

«In tempi di binge-watching sfrenato – ha scritto Violetta Bellocchio su Link – le serie antologiche ci obbligano a riscoprire il piacere della visione un episodio alla volta. Da Room 104 a Black Mirror, a volte ritornano». E gli oggetti evocativi che fanno da link tra storie, personaggi, situazioni? «Restano strizzate d’occhio, dettagli minuscoli nascosti per compiacere pochissimi», osserva Bellocchio, nella certezza che non è necessario sforzarsi di capire se tutti i Black Mirror sono ambientati nello stesso universo. Non serve. E ha ragione, perché quell’universo in fondo – aggiungo io – lo conosciamo già.

Il filo conduttore delle serie

Un fotogramma di Alla conquista del west.Nelle altre serie su Netflix (ma pure su Prime Video e simili), spesso, la formula ripetitiva prevalente è quella della “prosecuzione”. Storie che si chiudono a fine episodio, ma che evolvono – magari lentamente – verso un fine, un obiettivo, una scoperta, con personaggi definiti, che crescono e si perfezionano (un po’ come i replicanti di Blade Runner, tanto per citare un vecchio saggio di Omar Calabrese). Insomma, accade nelle serie contemporanee quello che avveniva in un filone di classici della tv pre internet come Alla conquista del West o Spazio 1999 (qui gli episodi Rai). Addirittura, in virtù dell’appartenenza alla scuderia Marvel, alcune serie di Netflix hanno universi condivisi tra loro (Jessica Jones, Daredevil, Luke Cage). In Black Mirror, al di là dello schermo, ciò non accade.

Black Mirror: il futuro è quasi già adesso

In Black Mirror il modello temporale è quello dell’accumulazione degli episodi, riconducibili però a una realtà: la nostra. I protagonisti della serie che si ripetono, nella variazione, possono essere benissimo persone comuni, della nostra realtà quotidiana. I personaggi sullo schermo non sembrano evolvere verso una fine della storia, verso una maturazione della loro personalità che ritroveremo nella puntata successiva. Finiscono con l’episodio. Chi evolve, nella visione progressiva e ripetuta delle distopie di Black Mirror, sono coloro che stanno al di qua dello schermo. Spinti – in un’epoca nella quale prevale l’approccio predittivo (anche Google vuol indovinare cosa stiamo per chiedergli) – spostati anzi solo un po’ più in avanti nel tempo, in un futuro prossimo venturo, in uno stato di accelerazione permanente. Che è quasi già adesso.