Vuoi visitare i musei del Comune di Roma? Adotta un romano. Lo spedisci al botteghino e, magari, facendogli acquistare i biglietti riesci pure a risparmiare un euro a ingresso. Il Campidoglio si è ridotto a comportarsi come i mercanti di Venezia – e Shakespeare non c’entra alcunché – che si racconta pratichino prezzi diversi in funzione dell’accento dell’avventore. A Roma nel 2011 sarà lo stesso. O quasi.

Dal 2 gennaio, infatti, se non hai un documento che attesti la tua residenza nella Capitale dovrai pagare un euro in più rispetto al prezzo del biglietto d’ingresso in uno dei 18 musei gestiti da Zètema. Non c’è scampo. Forse non si salveranno neanche i “Fedeli di Vitorchiano”, le guardie d’onore capitoline, che – seppur viterbesi – dal 1267 a oggi si fregiano del titolo Sum Vitorclanum castrum membrumque romanum. Hai voglia a dire che sono cives romani, quel che conta è la residenza. E così, anche loro, per risparmiar finiranno per cercare di “adottare” un cittadino romano.

D’altro canto di fronte al “progresso” non c’è barriera che tenga. «Sono assolutamente d’accordo – ha proclamato a Repubblica Umberto Broccoli, sovrintendente comunale di fronte al balzello su base residenziale – che il bene culturale produca reddito. E’ una sorta di grande rivoluzione liberale dove il bene non è più qualcosa da contemplare com’era nell’Ottocento, ma deve dare utile». Ora magari il bravo autore e conduttore radiofonico ha ragione di fronte a quei francesi che hanno arricciato il loro celeberrimo naso sciovinista all’idea del puzzo delle frites di McDonald’s al Louvre. D’altronde è giusto che i “beni” diano reddito. Ma qui c’è dell’altro. E “altro” che una rivoluzione liberale: c’è una discriminazione. Pure miope. Non ci vuol molto a scorgerla, a meno di essere – appunto – abbondanti in diottrie.

Qui tocca aprire il portafoglio, se si vuol vedere. Eccola allora l’era dell’accesso descritta dieci anni fa dall’economista Jeremy Rifkin? Ma in quella la gratuità era fattore chiave per la vendita di altri servizi. Qua lo sconto si fa su base residenziale. E dire che quello dell’Italia di dar maggior peso alla cultura rispetto al commercio era considerato un differenziale positivo rispetto agli Usa. Non dimenticherò mai quei giovanotti statunitensi ospiti dell’Archeoclub di fronte a un reperto dell’età del bronzo: «Quanti dollari vale?». Tra qualche anno, se l’unità di misura resisterà alle tempeste valutarie, i nostri chiederanno solo quanti euro costa un oinochoe.

Che la Capitale si stia chiudendo in una riedizione virtuale non delle Mura Aureliane, alla faccia di qualsivoglia 20 settembre, ma di un incipiente provincialismo è ormai palese: l’idea di far pagare una tassa a quanti, non romani, accedano al grande raccordo anulare è tutt’altro che tramontata. Chi paga, accede. Perfino su internet, metafora quasi metafisica del mondo parcellizzato di oggi, andrà sempre più così: la Federal communications commission statunitense non sembra infatti intenzionata a porre ostacoli alla pratica di far pagare l’accesso veloce alla Rete. E così si paventa un web di prima classe e un cyberspazio da suburra, per neoproletari digitali. Perché dunque non pure a Roma, dove sul discrimine tra romani e burini si è costruito un mondo?

D’altronde, ormai si monetizza tutto. A fine luglio fece eco per mezza Europa l’idea della Chiesa anglosassone di far pagare 25 euro per “accedere” alla visione del Papa . “Dobbiamo rientrare nei costi” si erano giustificati gli ideatori del balzello papalino. Ma non facevano discriminazioni sulla base della residenza. Discriminazioni non ne fanno – su fedeli e miscredenti – neanche i frati di Mantova, ribattezzati “frati posteggiatori”, che hanno deciso di affittare a 60 euro al mese il parcheggio davanti a San Francesco a chi deve andare in centro. Con buona pace di quelli che quel parcheggio avrebbero dovuto usare per andare alle funzioni religiose.

Sarà scontato, ma davvero sembra di aver imboccato la ruota del tempo in senso contrario. E doverci aspettare di ascoltare, al varco, qualcuno che ci reciti questo pezzo di copione: «Chi siete? […] Cosa portate? […] Sì, ma quanti siete? […] Un fiorino!». Già, non ci resta che piangere.