Foto di Rob ShenkI genitori gestiscono la scuola dei figli. Sono 550 le coop o associazioni private di padri e madri. Fanno tutte capo – tranne in un centinaio di casi – alla cattolica Federazione opere educative, vicina alla costellazione ciellina. Ne racconta Flavia Amabile su La Stampa, spiegando che migliaia di genitori non sono affatto convinti dell’istruzione pubblica. Apro allora il bilancio dell’istituto comprensivo – questo sì pubblico – frequentato dai miei figli. E scopro che – per il funzionamento didattico, insomma per “far scuola” (non per pagare i docenti, che è un conto a parte) – pagano di più i genitori che non l’Ufficio scolastico regionale. I contributi da parte delle “famiglie”, per queste attività, ammonteranno nel 2009 a più di 108 mila euro.  Lo Stato ci metterà poco meno di 3 mila euro attraverso quello che una volta era il Provveditorato. E forse ha smesso di esser chiamato così perché non provvede più ad un granché  per gli studi. Il Comune sborsa più o meno 15 mila euro, la Provincia 3 mila.

Un piccolo passo verso l’autonomia, si dirà. Magari qualcosa che anticipa, nei fatti,  qualche progetto di legge sull’autogoverno (ce ne sono altri sette), per il quale sono in corso audizioni informali della VII Commissione Cultura della Camera? No, non si tratta di questo. Pur essendo conti di bilancio pubblico, quindi per definizione in pareggio,  non è così che stanno le cose. Quel “qualcosa” che non torna è nella natura del contributo – nell’istituto dei miei piccoli pari ad un centinaio di euro a testa – cui sono implicitamente tenuti i genitori se non vogliono escludere i figli dalle opportunità formative. Costi per viaggi di istruzione, spese per corsi speciali, esborsi per iniziative che permettono di “aprire” la scuola al mondo esterno, di approfondire conoscenze, di fare esperienze. Alla faccia del modello finlandese. In Italia la scuola pubblica si paga.

Spazziamo subito via i formalismi. Se le scuole incassano denari dai genitori lo fanno ufficialmente solo a titolo di contributo spontaneo, non obbligatorio, volontario. Usiamo tutti gli aggettivi che ci vengono in mente per giustificare formalmente quello che – nei fatti – è invece un tributo. Manca l’aspetto coattivo, nel senso di imposizione diretta fatta dallo Stato. Ma quello implicito dell’esser parte di una comunità – e di doverci restare dentro – esercita tutta la sua forza: i ragazzini sarebbero degli esclusi dalla vita scolastica, se non pagassimo. Quei cento euro medi che gravano per ogni figlio nascondono una dura realtà: pagano di più le famiglie numerose. Pagano la stessa somma redditi alti e redditi bassi. E stendiamo in velo sul nodo annoso del costo dei libri. Insomma, non ci sono solo i genitori delle private, quelli che si mettono in coop per farsi la propria scuola –  presumibilmente “potendo” –  ad aprire il portafoglio. Ma anche coloro che tirano a campare con quattro spicci e devono pure pagare la scuola. Pubblica.