Saranno cose che capitano la sera d’estate. Ti chiedono di parlare pubblicamente – all’aperto e in uno stupendo cortile storico (con Carlo Infante) – di Facebook. E non sanno – “loro” – che rischi di straparlare, con successivi tuoi rimorsi per il tèdio prodotto nell’uditorio. Così può capitare che ti ritrovi, invece che a dibattere solo di “social/personal media”, a raccontar di televisione.

Sì, proprio così: quel mezzo che oltre il 94% degli italiani continua ad accendere, magari su terribili trasmissioni dedicate al circo, come ieri sera, per poi lamentarsene via social network. D’altro canto, come constatava Luca Tremolada su Nova24 di domenica scorsa, il web ormai è nazional popolare: su Twitter tirano da matti le discussioni su “Amici” e “Mistero”.

Se gli italiani attivi su Facebook sono 21 milioni, quasi quanti gli spettatori della finale degli Europei tra Italia e Spagna, questo significa che il fenomeno è numericamente di “massa”, pur senza annullarsi il ‘facebooker’ nell’uomo massa di cui parlava José Ortega y Gasset. Nel web sociale tende a prevalere più che l’omogeneizzazione tout court la connessione tra individui dotati di identità, quell’identità di cui Facebook – come insinua il direttore dell’Institute of Network Cultures di Amsterdam, Geert Lovink  – vorrebbe divenire unico fornitore globale.

Secondo il Censis  l’attività prediletta da chi accede a Facebook è quella di ficcar il naso nelle bacheche altrui. Tanto che Giovanni Boccia Artieri – nel suo “Facebook per genitori” – osserva: «Oggi più che abbonarci ai canali televisivi con Facebook ci abboniamo alla vita degli altri». Ma non è un fenomeno da “adolescenti”, se è vero che in Italia oltre il 50% degli utenti del social network di Zuckerberg ha più di 29 anni, quindi ben al di là dell’età dei cosiddetti (e presunti) nativi digitali. D’altra parte la sera o accendiamo la tv e/o il computer (anche se ormai anche il più banale dei cellulari wap ha una app per Facebook e possiamo elettrointerloquire permantentemente anche in movimento).

La televisione – secondo lo studioso di comunicazione americano Joshua Meyrowitz  – ha cambiato il nostro senso del luogo, ha avvicinato, reso familiari, smontato di sacralità le autorità. Al punto di aver contribuito alla rivoluzione culturale del ’68 negli Usa, visto che i nati negli anni 40 furono cresciuti a pane e tv. Fu l’epoca nella quale anche il privato assunse valenza pubblica, dove il confine tra palco e retropalco si spostò sempre più indietro. Fino allo schiacciamento di oggi, quando – per paradosso, ma non tanto – si enfatizza il “valore” (chiamato diritto) di privacy.

Oggi, o fino all’altro ieri, l’esempio e la leadership passano proprio per il “privato esibito”. La televisione pedagogica delle origini – quella del maestro Manzi o di Mike Bongiorno – ha lasciato progressivamente il passo a una tv nella quale la telecamera, da Portobello in poi (se proprio vogliamo trovare un inizio convenzionale), punta sulla gente comune. E questa ha iniziato a entrare in scena e riflettersi, anche fisicamente, sullo schermo.

Facebook è uno dei luoghi della “proiessenza”, neoparolaconiata da una quattordicenne all’ultimo Salone del Libro di Torino  – che indica ciò che scegliamo (o inconsapevolmente) proiettiamo di noi nel web. Come ha osservato la scrittrice Michela Marzano non si tratta di qualcosa nato con i social network: è quello che noi facciamo tutti i giorni, perché ognuno di noi sceglie cosa mostrare e cosa no di se stesso. La differenza però, dico io, è che – in più rispetto alla vita quotidiana, quella analogica e non connessa – su Facebook possiamo specchiarci costantemente. Vediamo noi stessi, anzi la nostra proiezione sullo schermo. E ne siamo attori e spettatori assieme di questa autorappresentazione, narcisismo a parte (che se uno è Narciso, lo è a prescindere dai social network). Lo siamo però in un ambiente nel quale dire o non accorgersi di dire il falso si può, ma che viene “verificato” e riportato al principio di realtà dagli “amici” di Facebook.  Un passo avanti rispetto a quella televisione cui siamo stati abituati, nella quale apparivano quelli come noi (e il feedback veniva da uno strumento di dubbia efficacia chiamato “Auditel”). E forse una delle ragioni per cui in grande numero di persone si connette con Facebook è che la tv sei (diventato) tu.