Prima era un sospetto. Ora è quasi una certezza. Il navigatore satellitare mi ha costretto l’altro giorno, e per più volte, ad un tortuoso giro tra i sensi unici sotto la Certosa, a Firenze, quando invece sarebbe stato più semplice – e breve – tirar dritto per la via principale. Quasi che l’aggeggio mi volesse dimostrare – ed è di questo che mi trovo sempre più persuaso – della sua indispensabilità. Non che fosse un disegno preordinato di qualche astuto programmatore nei panni del grande fratello del marketing, quanto semmai un naturale portato dell’ibrida esistenza che conduciamo.

In effetti, una volta imboccato il labirinto al quale mi aveva indotto la voce guida, non mi restava che il gps per ritrovar la strada giusta: da solo non ne sarei mai uscito, se non dopo magari un quarto d’ora di tentativi andati a vuoto. Altro che i paradossi della scuola “fatta” per gli insegnanti o gli ospedali per i medici, ricavati dal sempre troppo (da me) citato Ivan Illich. Questo è anche peggio: è automatico, non frutto di una distorta dinamica sociale. Non vale neanche la considerazione che talora le tecnologie, quando sono troppo nuove, inducono alla autoreferenzialità. Fu così – agli inizi – per la stessa internet, a lungo usata per parlar della rete, ma non oggi per uno strumento ormai “vecchio” come il TomTom e i suoi fratelli.

E’ questione semmai di topografia, se non addirittura di geografia. Alla strada si affianca la sua rappresentazione grafica istantanea, una interpretazione simbolica che tendiamo a preferire a quella percepita oltre il lunotto perché più ricca dell’originale: ci dice se dietro la curva c’è un autovelox, quanto manca al prossimo ristorante o se c’è una coda in vista. Un po’ come essere una mosca in volo e vedere le piste celesti che all’occhio umano sfuggono. Lo strumento ci conquista, e conquista soprattutto la nostra fiducia. Tranne magari quella di tua moglie, che nei panni del passeggero contesta apertamente le istruzioni dell’aggeggio: ma la interpreto più come idiosincrasia femminile per mappe ed affini che non come la pragmatista diffidenza verso gli algoritmi delle carte georeferenziate.

Qualche tempo fa su Science è apparso uno studio che dimostrebbe quanto la gente tenda a confidare nella propria capacità di trovare quel che cerca – anziché ricordarlo – attraverso i motori di ricerca. Non che stiamo diventando più scemi, abbiamo solo cambiato il modo di ricordare. Un processo iniziato parecchi secoli fa con la scrittura e poi proseguito con la stampa ed i libri. E non mi pare che, nonostante le critiche (a partire da quelle dello stracitato Socrate del Fedro), si sia diventati più cretini. Tutt’altro.

Eppure con i navigatori si è innescato un meccanismo perverso. Messi da parte coloro che ciecamente li seguono, arrivando a finire pure in un fosso o a incastrarsi col camper su una mulattiera, restiamo noi utilizzatori “normali” (si fa per dire) e, soprattutto, quelli futuri che ne dipenderanno ancor di più, la “Generazione TomTom”. Infatti non ci fidiamo tanto della capacità di trovare la strada “giusta” quanto l’importante non diventa il viaggio, ma la destinazione – rovesciando così una frase trita e ritrita ascoltata perfino in bocca a Jack Sparrow. Confidiamo insomma che ci porteranno all’obiettivo, a prescindere del come. Poi se qualcuno per raggiungere la parallela si infila tutti i giorni quasi nel cortile di casa mia, mandando su tutte le furie il mio cane, o gira in tondo attorno alla via principale poco importa. Conferma solo che a costui il navigatore serve.