Un Nokia E71.Stregati dallo smartphone. E pure cattivi genitori. Lo saremmo tutti noi che abbiamo gli occhi incollati per ore sui vari Nokia, iPhone o BlackBerry di ultima generazione. Le dipendenze fanno clamore. Quella del ragazzo la cui madre, per staccarlo dalla Playstation, ha fatto ricorso ai militari dell’Arma rientra però appieno nel cliché delle tecnologie cattive – perché artificiali (come se la Natura fosse intrinsecamente buona) – e, ovviamente, corruttrici delle giovani generazioni. Ma dagli Stati Uniti arriva invece un’allerta di  segno inverso: sono i genitori ad esser traviati da email, tastiere e – soprattutto – da schermi da pochi pollici, più ipnotizzanti della fonte d’acqua di Narciso. Al punto di dimenticarsi dei figli. Al massimo a me capita di dimenticare la macchinetta del caffé sulla piastra. Ma tant’è, un fondo di verità ci deve essere.

I piccoli a forza di sentirsi dire “un attimo”, “aspetta un minuto” (che non passa mai), da un padre o da una madre allo smartphone che erge  un muro tra loro ed il resto del mondo, ebbene questi piccoli manifestano a macchia d’olio sentimenti di fastidio, gelosia e competizione. A sostenerlo è Sherry Turkle, celebre e celebrata ricercatrice, già nota per il suo saggio “Vita allo schermo”, dopo cinque anni di studi e trecento interviste. Un lavoro ciclopico, che forse mi spiega finalmente perché – ad una mia richiesta di intervista di qualche anno fa, su tutt’altro tema – mi rispose di essere oberata di lavoro. Probabilmente era al computer. O allo smartphone.

Confermo, però, che se hai qualcosa da fare e inizi a combattere con l’email, Facebook ed i mille mezzi in cui sei coinvolto in quella che ascoltai definire da Franco “Bifo” Berardi – in un lontanissimo seminario universitario – come “elettrolocuzione permanente”, ti trovi effettivamente nelle condizioni descritte da Anna Masera, giornalista de La Stampa “avvezza” – se non altro per ragioni professionali – all’uso della posta elettronica. Perdi un sacco di tempo. «Da quando la ricevo anche sul telefono cellulare – aggiunge la Masera – ce l’ho sempre con me e mi perseguita nel tempo libero, a tavola, persino in bagno». Alzi la mano chi tra noi smartphone-dipendenti, almeno per una volta nella vita, non ha fatto scivolare l’amato palmare nel lavandino, in un catino o – peggio – nella tazza del cesso. Io ci ho rimesso un Nokia E61. Un architetto ha salvato il suo E71 per il rotto della cuffia seguendo il mio consiglio, preso ovviamente dal web, di metterlo ad asciugare nel riso.

La domanda, in una società utilitarista come la nostra, torna però quasi sempre negli stessi termini: questo “investimento” di tempo e di attenzione, o come qualcuno potrebbe dire – a forza di dar un peso economico a tutto – questo investimento di “risorse”, quali effetti o ritorni produce? Metto da parte, per carità di patria, la vecchia querelle (mi vien da sorridere ad usar l’aggettivo, vista l’età del web) circa il fatto che internet & soci possano renderci più o meno stupidi. Nè affronto il tema, affascinante, delle pratiche culturali connesse alle tecnologie in ossequio alla frase, attribuita ad Henry Jenkins (questo sì che sono riuscito ad intervistarlo), “our focus should not be on emerging technologies, but on emerging cultural practices” (il nostro focus non dovrebbe essere sulle tecnologie emergenti, ma sulle pratiche culturali emergenti). So che il lavoro te  lo porti sempre dietro, ma magari hai più tempo per star a casa. Solo che non ti fileresti di pezzo i figli, preso come sei a smistar email.

Ma non è questo che mi intriga. Resto colpito dalle conclusioni di uno studio della Nielsen: gli smartphone-dipendenti tendono ad avere redditi più alti degli altri. «Essi – riferisce il solito The New York Times –  hanno il doppio delle probabilità di fare più di 100.000 dollari l’anno rispetto alla media degli abbonati di telefonia mobile». Sarà colpa del mio scarso inglese o di un difetto di traduzione di Google Translate, metodo cui mi affido dando in prestito il mio cervello al Grande Fratello della Rete, ma io tutti quei soldi non li ho mai visti.