Il no al presepe è una forma di intolleranza vestita da laicità. Laico è semmai permetterlo, consentendo anche ad altri di esprimere il loro credo o non credo.
Il no al presepe è una forma di intolleranza vestita da laicità. Laico è semmai permetterlo, consentendo anche ad altri di esprimere il loro credo o non credo.
Vuoi visitare i musei del Comune di Roma? Adotta un romano. Lo spedisci al botteghino e, magari, facendogli acquistare i biglietti riesci pure a risparmiare un euro a ingresso. Il Campidoglio si è ridotto a comportarsi come i mercanti di Venezia – e Shakespeare non c’entra alcunché – che si racconta pratichino prezzi diversi in funzione dell’accento dell’avventore. A Roma nel 2011 sarà lo stesso. O quasi.
Quando ho visto i miei figli appiccicare sull’armadio della cameretta quei due pezzi di carta, scritti fitti come pandette, ho temuto il peggio. Per un attimo ho vissuto con l’idea della secessione in casa: vedrai che adesso proclamano l’indipendenza della loro stanza dal resto dell’abitazione. Già computavo a mente la quota loro spettante – da recuperare da bussolotti e portamonete, se non addirittura dal libretto alla posta – per pulizie della stanza, riscaldamento e consumi energetici. Ed invece erano regole, non proclami. Stufi di litigar per ogni cosa, avevano concordato delle norme di convivenza.
Non so se preoccuparmi perché non danno segni di anarchismo o piuttosto gioire perché sono davvero imprevedibili rispetto al cliché del ragazzino ribelle e insofferente alle regole. Fatto sta che un peccato di ingenuità lo hanno commesso: alla prima controversia sull’interpretazione delle norme, si sono di nuovo accapigliati. Non nel merito, ma sulla fattispecie da applicare. Ci vorrebbe un giudice, che se lo trovassero.
Ma come? A dar retta ad una come Letizia Moratti, già ministro alla (d)istruzione (della scuola italiana), dovrebbero eleggerselo. «Noi siamo eletti dai cittadini e a loro rispondiamo. Purtroppo i giudici non sono eletti, non rispondono ai cittadini» ha detto il sindaco di Milano, dopo che il tribunale meneghino ha ribadito una regola arcaica, ma essenziale: pacta sunt servanda, i patti vanno rispettati. Anche se si stipulano con i Rom.
Essendo in due, i miei piccini potrebbero in effetti scegliersene uno – di giudice – d’amore e d’accordo. Si chiama “arbitrato” e, a parte qualche brutto incidente di percorso, in genere funziona. Se però si fosse più di due parti a dover indicare, magari a priori e in assenza di controversie, chi sarà il magistrato se ne vedrebbero delle belle. Infatti l’interpretazione del diritto, che da noi deve esser una regola scritta “prima”, a differenza degli Usa dove valgono pure le sentenze “precedenti” (e là i giudici se li eleggono), sarebbe lasciato alla maggioranza. Con buona pace delle minoranze. Anche etniche. Vediamo che decidono.
Ho fatto le elementari negli anni Settanta. Perfino allora se mi avessero detto che un giorno la Sardegna avrebbe cercato di proclamare la sua indipendenza da quell’Italia che tanti sardi, cento anni prima, contribuirono ad unire, non ci avrei creduto. Se mi avessero raccontato che dell’Unità d’Italia e della nascita della Repubblica non se ne sarebbe parlato a scuola se non in terza media, li avrei presi per folli. Se mi avessero stampato sul banco lo stemma di un qualsiasi partito politico, avrei visto i miei genitori protestare fuori dall’edificio scolastico. Così come se si fosse ascoltato un ministro elogiare un teorico della separazione dello Stivale in tre regioni o contestare cittadini sventolare una bandiera tricolore per le calli di Venezia, qualcuno avrebbe intonato – per tutta risposta – un canto patriottico. Ed eccomi così oggi a celebrare il 20 settembre, una data che a tanti – adulti inclusi – ormai dice più poco o niente.
Non un’istituzione ad organizzare la posa della corona, ma un gruppo di cittadini – d’altro canto è dal 1929 che non si festeggia più ufficialmente la presa di Porta Pia. Un piccolo centro alle porte della Capitale, lontano dagli squilli di tromba mattutini, ha così realizzato nel pomeriggio la singolare, ma pluralista, manifestazione. Mentre ci arrivavo alla radio Predrag Matvejevic, scrittore nato bosniaco da padre russo e madre croata, che scrive in francese e ha il passaporto italiano, sottolineava quanto il termine “identitario” in altre lingue – tra cui appunto il francese – ha un valore negativo. Chiudersi nella particolarità, come totale, porta infatti a guerre ed ingiustizie. Chi viene dalla ex Jugoslavia sa bene cosa significhi. Ed allora quella breccia che ruppe lo Stato della Chiesa ha rappresentato l’ingresso dell’Italia nella dimensione laica, quella che separa il potere temporale da quello – sacrosanto per ciascun credente – spirituale. In Italia non si tagliarono teste, si ruppero le Mura di Roma. Fu meno cruenta. Ma la parola “identitario”, però, non assunse mai quel senso dispregiativo di “particolaristico” che Oltralpe le viene dato.
Ecco allora che si apre la strada oggi, metaforicamente passando magari per quelle vie dedicate al 20 settembre che quasi ogni comune italiano ha, dalla breccia di Porta Pia a quella che è la caratteristica ineliminabile della Costituzione repubblicana: il pluralismo.