Foto di east_mountainE’ un po’ come certo filosofeggiare sulle mezze stagioni. Che poi, di questi tempi, slitta talora nel dibattito astrale sui complotti di chi sparge scie chimiche o sul nuovo ordine mondiale. «Viviamo in una società sempre più individualista» è un’affermazione ricorrente. Ce lo dicono filosofi, esperti di morale (altrui) e magari qualche sociologo. Ma la ricorrenza del primo decennio di Facebook (in Italia quinquennio, come annota acutamente Giovanni Boccia Artieri),  fa emergere la consapevolezza che sempre più, la nostra, è più che individualista una “società identitaria”. Anche se questo aggettivo andrebbe interpretato non solo come affermazione, ma pure come nascondimento dell’identità.

Dalla massa all’identità. E’ in corso una sorta di ribaltamento (o riversamento) epocale, dall’uomo massa all’uomo identitario. La costruzione della propria rappresentazione (e/o, in chiave narcistitica, della propria autorappresentazione) costituisce un’attività nella quale si declina e sostanzia la nostra esistenza. Siccome poi per identificarsi bisogna differenziarsi ecco che lo spazio ideale per “arredare” il proprio spazio virtuale diventa quello sociale. Una dimensione che agendo poi sullo schermo completa la base storica della cultura popolare: quella della tv, anzi della neotelevisione e delle sue successive evoluzioni (“Facebook la tv sei tu”). Alcuni pionieri avevano trovato in Second Life una dimensione fisica, ma poi dal 2007 la più facile e di massa bacheca di Fb ha preso il sopravvento dando la stura ad un bisogno desideroso di esprimersi: comparire sullo schermo agli occhi di tutti per affermare, magari incosapevolmente, la propria identità.

Individualismo e collaborazione. La capacità di aggregarsi fluidamente (e le citazioni potrebbero spaziare da Meyrotwiz a Rheingold fino all’immancabile Bauman) attorno a qualche tema – ma senza perdere la propria identità, anzi affermandola – può essere vista come la cifra dell’esistenza a rete della nostra contemporaneità. Un essere solidali, talora, senza perdere se stessi. Una dimensione che permette di non alienarsi e insieme sentirsi partecipi. Il verbo che ben si attaglia è proprio quello di “condividere”: esser d’accordo o porre “a conoscenza”, che è qualcosa di sottilmente diverso dal pubblicare (che implica un “uno a molti” anziché un “molti a molti”). Certo, questa posizione è ambigua, intermedia, non definitiva. Perché l’essere identitario si pone come giunzione tra l’individualismo e l’adesione a un’entità collaborativa . Dipende da come ci si pone, dai bisogni e dalla cultura individuali, per poi ritrovarsi a vivere una o l’altra dimensione. Egoistica o collaborativo-solidale. Ma dall’identità sempre si parte.

Identità nascoste. Questa doppia possibilità che la società identitaria (che timidamente mi par di scorgere, ma sarò smentito da chi più ne sa di me) ci offre si riproduce non solo nell’atto di manifestare il nostro essere, ma anche di celarlo. Non solo per la selezione che riteniamo di fare, consapevolmente o meno, tra quanto portare sul palco della nostra autorappresentazione via social network (e non solo via Facebook). Un ritratto di sé che metaforicamente si concretizza con la pratica del “selfie”, nella quale la selezione – l’inquadratura, vale a dire la messa in cornice – si concentra nell’autoritratto. Ma c’è pure la possibilità, da un lato, di circoscrivere la propria identità ad una cerchia di relazioni selezionata e chiusa, invisibile agli occhi dei troppi che potrebbero sbirciare, attraverso una fuga da Facebook (magari verso Whatsapp). Dall’altro sui social puoi costruirti un’identità fittizia, nella quale nascondersi in ricerca di protezione. O per attaccare gli altri. Ma questo è un altro tema.