Foto di Ioan SameliDieci italiani, cinque romeni e un croato restano saldamente in pugno di un manipolo di pirati al largo di Laasqoray. Sono a  bordo di una nave paradossalmente battezzata Buccanneer, bucaniere, senza che in apparenza ci si preoccupi più di tanto. Neanche della effettiva nazionalità dei corsari che imperversano a largo della Somalia. Frattanto noi ci distraiamo con chi vorrebbe mandare in un museo The Pirate Bay, il motore di ricerca dei file torrent che innalza vele con teschio ed ossa.  A parte il fatto che un server dell’allegra comitiva di bucanieri svedesi è già finito in una teca, il pronunciamento dei giudici di Sua Maestà Carl XVI Gustaf Folke Hubertus Bernadott rappresenta da un lato una vittoria di Pirro – il sito funziona  e, vista l’architettura distribuita, funzionerà ancora – dall’altro un “attacco al cuore della Rete“. Basta provare a cercare un file torrent su Google e su Pirate Bay per scoprire che i due sistemi si somigliano. «Pirate Bay – osserva Marco Gambaro, docente di economia della comunicazione – funziona fornendo i link a siti e com­puter in cui i suoi utenti trovano il materiale da scambiare e copiare. Un’attività che, secondo i promotori del sito, è analoga a quella svolta dai motori di ricerca. Per cui, nel caso la condanna fosse confermata, sarebbe uno degli strumenti al cuore della rete ad essere messo in discussione».

Tradotto: se diventa illegale linkare contenuti “illegali”, anche Google e i suoi fratelli rischiano di finire fuorilegge. Una prospettiva inconcepibile, se non altro perché gli stessi giudici per lavorare avranno fatto uso proprio di qualche search engine. Figurarsi le aziende, quando si diffonderà la notizia della scoperta che i dipendenti connessi al web producono di più. Immaginiamoci la nostra economia della conoscenza, sarebbe come tornare ad un’era pre-ipertestuale. Ne sarebbe, per la verità, minata tutta la struttura di una società prosumistica: da Ikea – che delega alla “massa”, sdoganata così al design moderno, la fase di assemblaggio (che si spinge fino all’hacking) – per arrivare a Facebook, altro fenomeno di alfabetizzazione di “massa” all’interazione mediata dal computer, alla convergenza culturale e alla creazione di contenuti remixati o mash-up (spesso con buona pace dei copyright). Non c’è da fare un’analisi storiografica marxista per concludere che le sovrastrutture giuridiche dovranno cedere di fronte alle strutture socioeconomiche che reggono il mercato. Basta semplicemente pensare che come il privato è sempre più esposto e tracciabile – grazie al “controllo” che permea la società – parimenti è impossibile a qualunque creazione riducibile a materia digitale sottrarsi all’indicizzazione, manipolazione, missaggio e trasformazione del copyleft. Se tutti sono pirati, nessuno è pirata.