Sono in quattro. Una famigliola: due genitori, un bimbo ed una bimba. Nello spogliatoio della piscina parlano in italiano. E nella stessa lingua si rivolgono l’un l’altro, tra di loro. Ma l’accento, quell’accento là, è inequivocabile: vengono da qualche paese dell’Est europeo, forse proprio dalla Romania. Eppure si atteggiano, vestono e – soprattutto – parlano “come se” fossero italiani. E’ una strana sensazione quella che ti prende nell’ascoltare quella madre che magari si adira con il figlio e che istintivamente non usa la sua lingua. E’ la stessa che ti prende quando ascolti i due bambini rinfacciarsi qualche torto in italiano, anche quando noi stessi – presi dall’impeto della rabbia – magari scivoliamo nel dialetto. La nostra “lingua madre”.

Verrebbe da chiedergli il perché, ma poi un po’ di pudore te lo impedisce. La conclusione – forse banale – è che si stanno nascondendo. Un mascheramento così ben organizzato che pure i figli non sembrano aver mai ascoltato in casa propria la lingua delle loro origini. Qualcosa di cui magari chiunque serba se non orgoglio, almeno un dignitoso ricordo. Basta salire a bordo di una delle carrette del mare incagliatesi a Lampedusa per vedere a bordo – abbandonati nella fuga per la salvezza dalle onde del mare – resti di ricordi: foto con i cari lasciati per fuggire verso l’ignoto, diari, lettere, pezzi di vita insomma. Eppure queste persone si nascondono. Non riesco a farmene una ragione. Oppure preferisco non trovarla. Magari è meglio.