Foto di eplea66«Le scuole creano posti di lavoro per gli insegnanti, indipendentemente da ciò che gli allievi ne imparano». L’osservazione, per certi versi paradossale, è del pedagogista Ivan Illich. Anno: 1971. Eppure – gratta gratta – è più che mai attuale. Se tornassi dietro i banchi di scuola – io che feci la prima proprio 37 anni fa – oggi avrei tre insegnanti anziché una per imparare a leggere, scrivere, far di conto e ricevere il resto delle nozioni. Come da programma. Ovvio che parlerebbero una alla volta e, se in compresenza, una di loro si dedicherebbe, in teoria, a quelli tra i ragazzini che sono più in difficoltà. A meno di non provocare un incomprensibile vocìo, a forza di impartir lezione assieme.

E’ così dal 1990, quando il maestro unico fu abolito (da un tacito accordo fra Dc, Pci e sindacati, secondo Panebianco. Un’operazione che – a prescindere da quale fosse la motivazione della scelta – ha garantito posti di lavoro se non a tutti, quanto meno a tanti docenti minacciati dal calo demografico. Secondo il ministero dell’Istruzione, sin dall’anno prossimo – con la fine delle compresenze e dei tre maestri per due classi (e non per una, come invece si dice) – salteranno ben 42.105 posti. Altri 45.236 spariranno entro il 2012. Un dramma occupazionale, inutile negarlo. Ma sarebbero soprattutto mancate assunzioni.

Non c’è dunque una motivazione pedagogica che regga, è solo questione di bilancio dello Stato. Per convincersene basti pensare che con l’abolizione del maestro plurimo, ogni insegnante dovrà lavorare 24 ore anziché 22. Ma non sono stati previsti fondi per queste ore di straordinario, né il Tesoro intende inserirli. Ogni scuola dovrà provvedere con fondi propri. Peccato che gli istituti scolastici, nonostante l’autonomia di facciata, non abbiano entrate diverse dai fondi ministeriali. Donazioni e sponsores mai e poi mai potrebbero pagare i docenti, né i presidi imporre tasse o balzelli. Salteranno le due ore di programmazione settimanali? O i presidi saranno trascinati dal giudice del lavoro per morosità?

Come dunque 18 anni fa vi furono esigenze “socioeconomiche” dietro la ‘riforma’, lo stesso può dirsi oggi per il decreto Gelmini. Altro che pedagogia. Eppure vediamo bambini sfilare assieme a genitori e docenti contro la “morte della scuola”, quasi ci fosse davvero una profonda diatriba pedagogica alla base delle mobilitazioni. Simonetta Salacone, preside della primaria “Iqbal Masih” del Casilino a Roma, ha scritto un’accorata lettera al ministro Gelmini che sta ingombrando in copia di Sant’Antonio le caselle email di mezza Italia. «Stupisce la leggerezza – dice evocando implicitamente la platonica repubblica guidata solo da filosofi – il pressappochismo, l’ignoranza di quanti, *senza la minima competenza professionale*, si esprimono sull’educazione delle nuove generazioni e sulla scuola». Ed illustra i bei risultati ottenuti – in tema di integrazione, multiculturalismo e media education – grazie al maestro plurimo nella sua scuola.

Bella la “sua” scuola, peccato che non sia dappertutto così. Che dire infatti di casi di insegnanti che preferiscono, al posto di corsi su bullismo e new media, quelli su “intreccio vimini”? Come replicare all’osservazione del presidente dell’Indire, Giovanni Biondi, quando scriveva – a proposito di scuola e nuove tecnologie – che se un cittadino di fine Ottocento venisse proiettato nel mondo attuale, non sarebbe in grado di riconoscere nulla di esso ad eccezione delle aule scolastiche? Come spiegarsi – soprattutto – che nei test internazionali alle elementari i nostri ragazzini sono sì uno spettacolo, ma sono preceduti da Paesi dove magari c’è il maestro unico? Per quale misteriosa ragione – come notava Luca Ricolfi – questi stessi ragazzi nei gradi successivi infarciscono di errori i loro test? Neanche regge troppo l’argomento della specializzazione didattica: avrebbe senso allorché, a livello accademico, ci fossero in cattedra dei ricercatori chiamati ad insegnare non saperi di base, come alla Primaria.

Insomma, il nodo da sciogliere sul decreto Gelmini non può essere didattico, ma sociale. Basti pensare alla materna: l’introduzione dell’insegnante unico corrisponderà alla scomparsa del cosiddetto “tempo normale”, quello che protraeva le ore di asilo al pomeriggio. Con la mano sinistra, si mettono così i genitori nella condizione di cercare una scuola pomeridiana (privata) oppure si scaricano sulle scuole dell’infanzia comunali altri bisogni cui i Comuni dovranno dar risposta. Con la mano destra, invece, il ministro Gelmini sottolinea che alla Primaria bisogna dare risposta alle esigenze delle famiglie in cui lavorano entrambi i genitori con l’ampliamento – grazie al maestro unico – del numero delle classi a tempo pieno. Il che se per la seconda scelta (sebbene ancora mai messa nero su bianco in un decreto, a differenza del maestro unico) merita un applauso, sulla cancellazione dei pomeriggi alle materne lascia quanto meno perplessi. Anzi, allibiti.