Foto di paolo màrgari“Primo giorno di scuola: quattro su diciotto con il grembiule. Gli altri? Senza. Una prima elementare a caso, in un piccolo centro”.

Annotavo così, quattro anni fa, all’esordio di mio figlio alla Primaria. Dopo una lunga ed estenuante attività di convincimento con insegnanti e genitori, l’Istituto – del quale nel frattempo sono divenuto presidente – ha introdotto l’obbligo dell’indumento scolastico per tutti gli alunni di materna ed elementari durante la loro permanenza nella scuola. Il voto del Consiglio è stato pressoché unanime: docenti, rappresentanti dei genitori e personale amministrativo. Un solo astenuto.

Oggi leggo che – a commento della stessa scelta, caldeggiata dal ministro Gelmini (classe 1973) – anche Anna Oliviero Ferraris, docente di psicologia dello sviluppo a “La Sapienza”, sostiene quanto io ho argomentato per anni: «Essendo una sorta di divisa, riesce a strutturare i bambini come alunni. Li fa sentir parte di una comunità importante. E questo è fondamentale per loro, che devono sentirsi parte di un qualcosa all’interno del quale riconoscersi».

Tant’è che il 7 aprile scorso il mio Istituto aveva già deliberato la re-introduzione del grembiule con questi tre argomenti:

  1. contribuire alla scolarizzazione ed all’inserimento in un ambiente caratterizzato da un sistema di regole, permettendo agli alunni di riconoscere il “proprio essere a scuola” nel rispetto della propria individualità (distinguendo, ad esempio, tra l’“io sono Luca” e l’“io sono Luca a scuola”);
  2. contribuire alla costruzione dell’autorevolezza della scuola come ambiente dotato di un proprio ordinamento, distinto dal “fuori” e comunque ad esso collegato, in vista del contenimento di successivi fenomeni di discredito ed indisciplina che possano derivare da una diminuita percezione dell’autorevolezza dell’istituzione scolastica;
  3. agevolare lo svolgimento di attività laboratoriali e didattiche per le quali è opportuna una protezione degli indumenti degli alunni.

Le motivazioni della Gelmini, però, mi lasciano perplesso. No ai capi firmati tra bambini, si è detto. E come allora non notare – come ha fatto il pedagostista Cesare Scurati – che se questa l’uniformità di abbigliamento è «Un’utopia: finiremo comunque con l’avere grembiuli griffati». Marina Salomon si è detta favorevole anche se va contro i propri interessi, Alessandra Facchinetti, 35 anni, stilista di Valentino fa di più: «Il concetto di una divisa scolastica mi piace molto, dà un senso di giustizia e di educazione che certo non fa male ai ragazzi».

La risposta a tante preoccupazioni forse la avevo già il 16 settembre del 2004.

In un afflato liberalista si potrebbe pensare che quel grembiule sia destinato a far sentire i ragazzini soltanto “un mattone nel muro”, che appiattisca la personalità come vuole ogni totalitarismo degno di questo nome. Ma all’altro capo del dilemma – ormai annoso – c’è l’osservazione che – senza grembiule – i piccoli vengono presto trascinati nella sarabanda consumistica della griffe più bella. Oltre che non esser “liberi” di giocare, lavorare o disegnare per non insudiciare il capo per cui mamma (o papà) hanno speso un bel po’ di soldi.

Di fatto, in termini di norme condivise, quali le consuetudini, il grembiule non sembra esser più sentito come un obbligo. In una società dove l’individuo è sempre più messo di fronte a scelte, dove l’esistenza si realizza nello scegliere ed a subire l’insoddisfazione della scelta effettuata per “consumare” un’altra opzione che si prospetta all’orizzonte, quel pezzo di tela è uniformante destinato a rimanere nell’armadio. Confligge con l’illusione della libertà che il consumo profonde in noi. Colpisce che anche chi lo ha acquistato per i propri figli magari non lo faccia indossare subito: «Volevo vedere se lo portavano». E così una spirale silenziosa trascinerà magari anche coloro che avevano avuto il “coraggio” di vestire alla scolara verso l’abbandono del grembiule. Il paradosso potrebbe essere che chi non lo aveva il primo giorno si presenti – stavolta davvero solo – con il camice il secondo.

Eppure una possibile soluzione al dilemma c’è. Ed è a dir poco “moderata”, sebbene involontariamente a suggerirla è l’osservazione di quanto fece un estremista, Adel Smith, che avrebbe mostrato in un telegiornale, tempo fa, i grembiulini dei suoi bambini con stampati davanti e sulla schiena i versetti del Corano. Ognuno insomma può “personalizzare” i propri grembiuli, salvando individualità o il piacere di “scegliere”, ma nel contempo identificarsi come membro di un gruppo, la scuola, appartenere al quale costituisce – assieme alla famiglia, agli amici ed ai mezzi di comunicazione – un fondamentale agente di socializzazione. Ovviamente per arrivarci esistono due strade, che si possono unire: imporre l’obbligo con i regolamenti di istituto condivendone le modalità tra genitori. Utopia?