I ragazzi a scuola si distraggono? “Colpa dei telefonini”. Chattano, whatsappano e chissà quali altre diavolerie fanno con gli aggeggi telematici che assorbono la loro attenzione. L’accusa, anzi la litania, è tutt’altro che rara ad ascoltarsi: se non ci fossero, tutto andrebbe meglio. Poi guardi i genitori – e pure i prof – che nel corso dell’assemblea scolastica scuotono il capo scandalizzati e ricordi loro dei bigliettini, del gioco dell’impiccato, del tris e di tutte le altre distrazioni sotto i banchi che ci coinvolgevano ai tempi della scuola. Distratti noi allora, distratti figli e allievi oggi.

Questa stanza non ha più pareti

Eppure nell’atto di fare “tap” sugli smartphone viene percepito – quasi a pelle – un che di sacrilego, qualcosa che disturba, non è più quell’innocente starsene con la testa altrove durante la barbosa lezione di filosofia. E non è la ormai lisa contrapposizione tra analogico – i “pizzini” – e digitale – il messaggino – a giustificare tanto disagio. E’ invece, probabilmente, la sensazione che la scuola possa perdere le proprie pareti. Quelle “sicure” mura di cinta nella quale tanta parte degli operatori dell’educazione, e non solo loro, la vorrebbero racchiusa. Che sia possibile collegare quel mondo – in molti casi, ma non tutti – autoreferenziale con quello esterno lascia disorientati. Qualcosa di inconcepibile, verrebbe da insinuare, per un’istituzione che se un viaggiatore nel tempo – proveniente dalla fine del XIX secolo – la visitasse, non stenterebbe a riconoscere come “la scuola”. Se non altro dalla disposizione degli arredi, che nella sostanza non è  cambiata. I docenti sì, per alcuni versi ce ne sono di migliori. Ma non è una questione di individualità, bensì di organizzazione e cultura/storia dell’istituzione.

Il caso dei genitori dopanti

Bisogna però ammetterlo. A proposito di smartphone in classe si ascoltano pure autentiche follie. Come quella dei compiti in classe risolti fraudolentemente dagli studenti dotati di secondo telefonino – il primo è depositato sulla cattedra – non attingendo a qualche sito online, facilmente smascherabile da qualsiasi docente minimamente accorto e capace di fare una ricerca con Google. La surreale realtà è che ci sono verifiche svolte a casa da padri o madri conniventi e ritrasmesse ai figlioli (asini) via cellulare. Un po’ come i genitori che dopano il ragazzino per fargli vincere la gara sportiva dilettantesca. Chissà, se in evenienze simili, ci sono mai stati casi di revoca della patria potestà. E’ un po’ da cinica commedia all’italiana: se il figliolo si prende un debito – d’altronde – possono esser soldi e tempo da spendere, magari pure con le vacanze rovinate. E’ la stessa logica opportunistica – stavolta lato docente – che ha portato a trasformare una misurazione della qualità, le prove Invalsi, in una vera e propria materia di studio (“Libri di test“).

«Arrivano alle Superiori studenti bravissimi nelle prove di matematica oggetto di test – ha detto, sconsolata, una professoressa di liceo –  ma assolutamente impreparati per gli altri argomenti della stessa materia».

Anche qui ci sono le dovute eccezioni (delle quali sono stato testimone diretto), ma il campione statistico – legato a più provenienze – riferitomi dalla docente indurrebbe a darle ragione. Se non altro come tendenza.

Polizia postale e abbecedario digitale

Durante le assemblee scolastiche con le famiglie non è poi raro ascoltare segnalazioni allarmate: qualche lustro fa era Messenger a spaventare, poi – giustamente – bullismo e sexting via Snapchat. Ora la follia “virale” del neknominate: video di bevute con “nomina” del successivo candidato a dimostrare di non essere uno sfigato perché non sa tenere (e scolare) un bottiglia di vodka. Reazione d’impulso dei presenti: subito la polizia postale (o chi per loro) ad illustrare tutti i pericoli della Rete. E’ una fatica immane far passare – e dubito si possa esser sempre compresi – che accanto alla dissuasione legata all’emergenza sarebbe opportuno lavorare sodo sull’alfabetizzazione all’uso dei social (e della Rete in generale). Su Uno mattina, lo scorso 15 febbraio, Giovanni Boccia Artieri – autore di “Facebook per genitori”  – a proposito di giovani e social network aveva detto tre cose, forse semplici – e per questo fondamentali – ma non per tutti. La prima è che i social sono inevitabili: non si può sperare che scompaiano e non sono neppure un mondo separato da quello quotidiano. La seconda era un invito ai genitori: «Chiedi a tuo figlio non solo come è andato a scuola, ma anche come è andata su Facebook». Mentre la terza era rivolta alla scuola: a lezione non smontiamo più solo i testi letterari per vedere “come funzionano”, ma pure quelli di ambienti coi quali si vive 24 ore al giorno.

Verso la maturità, ma quella vera

La velocità di mutamento dei fenomeni nel web è tale e talmente imprevedibile il loro evolversi che l’unico metodo per affrontare i “pericoli” futuri  è dare ai ragazzi strumenti di consapevolezza. Solo così sapranno fronteggiare le novità e decidere in maniera autonoma come gestirle. Inutile fare esclusivamente comunicazione di emergenza – che ci sta pure bene per tamponare, ma per lo più è inutile (se non dannosa) – bisognerebbe “prevenire” permettendo ai ragazzi stessi di sapersi adattare al mutabile, veloce e cangiante mondo in cui viviamo (e non solo di quello che ci si illude “chiuso nella Rete”). Dato che l’approdo della secondaria è proprio la maturità, in fin dei conti, proprio di questo si tratta: aiutare a maturare i ragazzi.

«Ma chi è disposto a farlo? Più bello giocare ad accusarsi l’un l’altro di essere apocalittici o integrati, quando, più semplicemente, si è soltanto ignoranti (in senso tecnico)»

ha commentato amaro Roberto Maragliano, autore di “Adottare l’e-learning a scuola” e, con Mario Pireddu, di “Storia e pedagogia nei media“.