La Domenica del Corriere il 16 dicembre 1962 pubblicava una copertina con la soluzione per gli ingorghi del futuro: un mezzo a metà tra un Segway e una Smart.
La Domenica del Corriere il 16 dicembre 1962 pubblicava una copertina con la soluzione per gli ingorghi del futuro: un mezzo a metà tra un Segway e una Smart.
Dal fax al web, dalla telefonia mobile via via fino all’e-bank, i sistemi di riconoscimento vocale (se non addirittura Siri e simili) fino agli ebook. Tutto previsto da tre ingegneri di At&t ospiti di una trasmissione radio di CBS e ripresi nel 1962 da un settimanale dell’epoca di Trapani. Ai limiti dell’incredibile.
Niente giornalisti, cameramen e fotografi, please. L’invito non viene da qualcuno che magari teme per la propria privacy o sospetta che “passino” notizie tendenziose, come il tormentone mediatico di questa estate ci ha abituato a leggere, ascoltare e vedere. Ma arriva dalla rete no-G8. Lo racconta il Manifesto, giornale non sospetto di simpatie per la parte avversa degli organizzatori di un sit-in a Ponte Galeria, a Roma, sede di un centro di espulsione per clandestini. «Agli operatori dell’informazione è stato chiesto di starsene in disparte, lontano dal concentramento, e di non fare foto in primo piano. Poi è stato distribuito un volantino: “Non riprendere, riprenditi la vita”. Gli autori oltre a spiegare i contenuti della manifestazione si arrogano il diritto di distinguere tra stampa buona e stampa cattiva. Quella cattiva è ovviamente la “mainstream”, dentro cui sono stati messi tutti, quella buona è invece propria dei “canali indipendenti”». Quando si fanno gli aut aut anziché gli et et, non c’è che dire, sono in arrivo cattive notizie per il pluralismo.
Accelera la corsa verso il nucleare dell’Italia. Un “provvedimento storico”, è stato detto. Ed è vero: cambierà per sempre la storia di chi vivrà nella Penisola. I governi nuclearisti magari passano, le scorie invece restano. Per millenni. La fuga in avanti, con l’approvazione del disegno di legge alla Camera, rischia poi di rivelarsi come un vagone pericoloso cui si arrugginiscono gli assi mentre corre sul binario del nucleare.
Ecco cosa diceva, sempre ieri, Carlo Rubbia a il Sole 24 Ore, edizione Roma (in un pezzo di Federico Rendina):
Nuove centrali di attuale generazione? «Ci vogliono dieci anni per costruirle, e quando entreranno in funzione potremmo scoprire che il mondo è a corto di uranio». Bisogna accelerare la ricerca. E Rubbia, sul nuovo atomo, un’idea ce l’ha: l’utilizzo non dell’uranio ma del torio, che il natura pare ci sia in grande abbondanza. Con il torio – sostiene Rubbia – ogni problema potrebbe essere risolto: energia nucleare pi sicura, assolutamente economica, niente trasferimenti indebiti alle tecnologie belliche. E, oltretutto, niente scorie. Di più: una centrale a tono potrebbe anche bruciare, distruggendole, le scorie attuali trasformando anche quelle in energia. Parola di premio Nobel.
Le retribuzioni degli insegnanti italiani? Ad andamento “piatto”. Gli stipendi sono rigidamente ed ineluttabilmente ancorati all’anzianità di servizio. Ma se il risultato poi è niente meritocrazia, allora la conseguenza è il “disinteresse verso la scuola”. Ci sono insegnanti – conosciuti anche di persona – che coltivano, ricercano, si impegnano, innovano, e magari ottengono pure splendidi risultati. Del loro lavoro però – se va bene – non si accorge che qualche genitore (gli altri magari lo insultano perché “non fa il programma”), probabilmente il loro dirigente, ma men che mai chi gli paga lo stipendio.
«Oggi si comincia ad avvertire una carenza di docenti: per ben 1.500 delle circa 8.000 graduatorie i posti disponibili superano o stanno per superare gli insegnanti alla ricerca di un’ occupazione». E’ una delle constatazioni (già anticipate qui) di un intervento di Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Giovanni Agnelli, pubblicata sul Corriere del 29 giugno e che non ha invece sollevato – come sarebbe stato auspicabile e immaginavo – un dibattito. Mica tanto, solo una discussione, né chiassosa, né pacata. Eppure quell’intervento merita (come altre sue prese di posizione) di finire nel taccuino di chi vuol salvare la scuola pubblica, evitando magari di affossarla con tagli indiscriminati di risorse e accantonamento di fondi per sovvenzionare le “private”.