Il titolo di studio potrebbe finalmente perdere valore legale (Foto di lodri)Se il ripristino dei voti, del maestro unico e del sette in condotta hanno il sapore antico delle ‘cose buone di una volta’ – il Mulino bianco dell’istruzione, insomma – l’idea liberal di rilanciare l’abolizione del valore legale al titolo di studio mette il ministro Maria Stella Gelmini all’avanguardia. Addio università che sono ‘promozionifici’ attenti ad evitare i fuori corso per non perdere finanziamenti, addio agli asini divenuti docenti per investitura baronale, addio a quella malriposta fede nel “pezzo di carta”. Eppure in questa faccenda cui si potrebbe applaudire a scena aperta c’è un retrogusto centralista, da Stato balia – e pure classista – nonostante si utilizzi un termine anglosassone che fa tanto “tre i”: impresa, inglese, innovazione. E’ il rating.Le scuole – di ogni ordine e grado, secondo la presidente della Commissione Cultura Valentina Aprea – dovrebbero essere sottoposte ad una valutazione (il rating, appunto) di un soggetto terzo (Anvur gli atenei, Invalsi le altre) cosicché il diploma conseguito presso un’università meno qualificata “pesi” in maniera inferiore rispetto a quelle di istituti blasonati.

Inutile dire che è facile immaginare – nell’Italietta di sempre – baronie, amici degli amici, sponsores che spingono e respingono nomi in graduatoria. Con il risultato che il riscatto sociale dei meritevoli, rispetto ai figli di papà promossi a suon di bigliettoni in qualche compiacente istituto o ateneo, verrebbe frustrato dal rating dell’ateneo o della scuola, mandando a farsi friggere le intenzioni riformatrici e – in particolare- violando l’articolo 34 della Costituzione e, soprattutto, il principio di giustizia sociale.

Se un giovane è capace, sa fare, ha competenze lo dimostra nei fatti, non con i blasoni di un titolo di studio al quale la legge attribuisce oggi “valore” né con il rating assegnato un domani alla sua scuola di provenienza. Anche perché non è detto che esista un “ideale” percorso formativo standard, ovvero quello che i valutatori ritengono corretto, né un sistema didattico che per soddisfare i valori degli indicatori messi insieme da Invalsi o Anvur se ne possa fregare altamente dei risultati didattici per far più attenzione alla docimologia, al soddisfare le esigenze dei contatori e dei misuratori. Tutto ciò imporrebbe dall’alto un modello di società, di ricerca, di didattica – una sorta di centralismo comunista d’antan – anzichè lasciar liberi i docenti ed i discenti di sperimentare. Parleranno i risultati: se sarai bravo nella vita perché ben “formato”, si vedrà. Senza bisogno di rating.

Infine un’ultima aberrazione arriverebbe dalla bestia nera che – finora – blocca ed ha bloccato la cancellazione del valore legale al titolo di studio. Sono i concorsi e l’accesso alle professioni. La “spintarella” è sempre esistita, ma presupponeva almeno che il “sospinto” fosse a parità di condizioni – quanto a titoli di studio, ovunque e comunque conseguiti – rispetto a chi invece avrebbe dovuto cavarsela con le proprie unghie. La storia parla di alcuni outsider – rispetto alla pattuglia dei vincitori predestinati dai “si dice” – ad ogni concorso, il che ha fatto tutto sommato sopravvivere il sistema ai limiti della decenza. Togliere il baluardo del titolo farebbe rischiare l’accesso selvaggio dei non meritevoli? Forse non più di adesso. L’unica cosa che potrebbe davvero invece far saltare il giocattolo è l’assegnare punteggi o coefficienti diversi in ragione dell’università o della scuola di provenienza del candidato. Il rating favorirebbe, insomma, non tanto i più bravi ma coloro che rientrano nelle classi “elette”.

In italiano si chiamano caste.