Foto di Victor BezrukovLe donne in pensione alla stessa età degli uomini. L’Italia resiste, ma alla fine desiste di fronte alla decisione della Corte di europea di giustizia fatta valere dalla commissaria Ue Viviane Reding. “Tutti” in pensione a 65 anni. D’altronde –  sia permesso di aggiungere un “giustamente” –  Bruxelles ha minacciato di far rimborsare i lavoratori di sesso maschile, costretti ad un più lungo periodo di lavoro rispetto alle femmine, oltre che ad un’attesa maggiore prima di andare “a riposo”. Basta guardare le statistiche dell’Istat per capire che non ci sono scuse: a 65 anni le donne italiane hanno la speranza di campare mediamente altri 21 anni, contro i 17,8 degli uomini. Eppure – per non smentire di far le cose all’italiana – applicheremo la disposizione a metà. Anzi, alla sola metà del cielo che appartiene al gruppo degli oltre tre milioni di dipendenti pubblici: 254.023 lavoratrici, per ora. Per le donne del comparto si pensava di portare il pensionamento, dal luglio 2011, a 62 anni per arrivare a gennaio 2016 all’età di 65 anni dipendenti. Oggi questo traguardo lo taglieranno entro il 2012.

Ed il resto del mondo le lavoro, quello più consistente? Non si toccherà. La ragione è stata spiegata, neanche troppo forbitamente, dal ministro del welfare Maurizio Sacconi. «Sarebbe molto più oneroso – ha detto – il settore privato è caratterizzato da una tale segmentazione da non consentire un’uguale regolamentazione previdenziale. Le donne interessate sarebbero costrette ad attendere la pensione da disoccupate». “Da disoccupate” vuol dire – allora – che il pubblico impiego è un ammortizzatore sociale, perché altrimenti le lavoratrici nella fascia tra i 60 ed i 65 sarebbero destinate alla disoccupazione? Oppure sta a significare che il lavoro pubblico ha caratteristiche tali – in termini di usura fisica, psichica e professionale – da essere “più leggero” da affrontare rispetto a quello privato? Comunque vada, questa impostazione non rende onore a quanti, invece, negli uffici pubblici sgobbano e, magari, pensano al risultato anziché alla “presenza” o al ricevere incentivi a pioggia.

Se però il clamore mediatico, al solito, è concentrato su quelli che “appaiono” grandi temi – come questo del prolungamento dell’età pensionabile di una quantità, però, a conti fatti, alquanto ridotta di donne (quelle cioè alle dipendenze della pubblica amministrazione) – nel frattempo passa in secondo piano un meccanismo di slittamento combinato con un “taglio” ad orologeria innescato nell’ormai lontano 1995. E c’è di mezzo, pure stavolta, la “speranza di vita”. Senza distinzioni di sesso e identica “disperazione da pensione”. Il ragionamento è semplice, il risultato è invece quella che nelle campagne chiamano “far a corsa con la lepre”: più si allunga la vita media, più slitta la data di pensionamento. Un traguardo che può apparire una chimera. Primo ritardo nell’uscita dal lavoro previsto nel 2015, tempo in più da attendere: tre mesi. Un periodo che potrebbe progressivamente allungarsi al crescere delle proiezioni sullo stato di salute della popolazione italiane. Il decreto è dell’anno scorso, le norme di attuazione di fine maggio. E, per completare il quadro, la riforma Dini collega a questo maggior invecchiamento una decurtazione degli assegni in proporzione all’allungamento della vita. Frattanto si preannuncia nella manovra “tagliatutto” un possibile innalzamento a 70 anni dell’età pensionabile dei giovani. D’altro canto facendo lavorare di più gli anziani, nel mondo del lavoro – quello “serio” – (e nella vita) i giovanotti ci entreranno sempre più tardi, no? Lavora vecchio, la pelle è dura.