Foto di exfordyE’ una “notizia” di seconda mano. All’aeroporto di Teheran opererebbe la Polizia di Facebook. Evgeny Morozov racconta di un suo collega che avrebbe riferito questo aneddoto. Nel passare al controllo di frontiera, un’iraniana americana sarebbe stata interrogata dagli agenti sul suo possesso di un account del social network. Alla risposta negativa, i poliziotti avrebbero acceso un laptop e si sarebbero messi a cercarne il nome su FB. Trovato il profilo, i solerti agenti avrebbero annotato i suoi “amici” su Facebook. Il racconto – nei commenti, sollecitati dall’autore nel fornire conferme – però appare più un “sentito dire”, quasi una leggenda metropolitana. Anzi, della Rete. Eppure ciò non toglie che sia verisimile, quindi credibile: i colloqui di lavoro, il lavoro dei giornalisti e – perfino – le occhiute spiate dei “traditi” (o degli stalker) sembrano destinati a passare – secondo la vulgata imperante – proprio per Facebook.

Viviamo, specie nelle città (ma anche negli artificiali centri residenziali), come chiusi in baccelli. E la rete – con esperienze come quelle dei pianerottoli web – ha consentito di socializzare, anche al posto dell’antico “sali a prendere un caffé” condominiale. E con i social network la conversazione da bar è diventata globale. Ma le ansie “là fuori” spingono alla porta, si infiltrano nelle macchine del pensiero, delle relazioni e delle emozioni (quali sono i terminali connesso al web). E prendono corpo nelle varie distopie sulla Rete. Ne sanno qualcosa i residenti di Second Life. Ma riflettiamoci bene: pubblicare qualsiasi cosa, condividerla con il pulsante share,  è assolvere alla propria autorappresentazione in rete. Non possiamo dire di non averne una pur minima consapevolezza. Quello cui partecipiamo, oltre che alla grande conversazione (bella, utile, arricchente), è anche una sorta di reality collettivo, dove si è pubblico e “partecipanti” insieme, nel quale mettiamo in evidenza – rendendole leggibili – anche le nostre connessioni “amicali” (o, nel caso di personaggi famosi, i bottoni sulla giacca di fan).

Di che lamentarsi allora, se qualcuno scorge quel che abbiamo deciso di essere? Abbiamo aperto il nostro backstage agli occhi altrui, abbiamo spostato le quinte ed indossato la maschera che più ci piaceva. E’ vero che di fronte ad uno schermo ci si sbottona più facilmente. E non solo in senso virtuale. «Non siamo neppure più in grado di capire che cos’è l’intimità e che cosa è la solitudine» dice Sherry Turkle. Ma io non sono il mio profilo o il mio vicinato di Facebook. Non sono neanche colui che appare su LinkedIn o il mio avatar di Second Life. Il timore, semmai, è di finirci prigionieri – in senso pirandelliano – di quelle maschere, di quei profili che indossiamo nei vari contesti. La paura del ritrovarsi nei panni di un Fu Mattia Pascal digitale accende allora bizzarre reazioni. Una, ad esempio, è quella di chi agogna all’oblìo telematico (non esattamente questo), dimenticando che – come ben sanno gli esperti di data recovery – bisognerebbe distruggere fisicamente le memorie di massa per aver una speranza di cancellazione.  Sarebbe come cercare di suicidare il proprio alter ego in Second Life gettandolo da una torre. Si rialzerà, senza neanche spolverarsi la giacca.