Un bicchiere di latte al giorno toglie le dimenticanze di torno. La tesi appartiene a uno dei soliti studi americani – e chissà perché sempre a stelle e strisce – che i giornalisti italiani adorano rilanciare. Un po’ come le statistiche: più bizzarre sono, più fanno notizia. Poi chissene se il campione rappresentativo sono quattro gatti.

Il latte, dunque, sarebbe la “benzina del cervello”, scrive l’International Dairy Journal. Ora, non ricordo bene da quanto tempo, ma mi pare dalla tenera età di 11 anni, vivo in una perenne austerity. Nel senso cioè che a me, da allora, quel dolce liquido bianco fa male alla testa. Intendo “mal” di testa, non stimolo cerebrale, ovviamente.

E così oggi scopro che nonostante i quintali di pesce che devo aver ingurgitato in più lustri, degli scienziati del Maine hanno definitivamente decretato a cosa sono dovuti i miei limiti. E dire che pensavo – sempre per rispondere a una convinzione, tanto ingiusta quanto radicata – fossero traccia indelebile impressa sui miei neuroni dalla permanenza, per i dodici mesi della leva, in una particolare forza armata.

Gli studiosi hanno misurato le performance cerebrali di oltre 900 uomini e donne tra i 23 e i 98 anni d’età, sottoponendoli a test in cui sono stati valutati 8 diversi parametri chiave. I risultati sono stati “significativamente migliori” per chi consumava più latte e latticini. E qui stracchini, burrate, mozzarelle e fior di latte devono essere state le mie inconsapevoli ancore di salvezza da uno stato di prematura demenza giovanile. Forse qualcosa mi fa pure il caffè schiumato, che quando l’ho chiesto a Firenze mi hanno guardato con occhio smarrito. Dimentico nomi e cognomi, ma non i volti. Lascio tranquillamente le macchine da caffé sul fornello, ma non la Nespresso accesa. Insomma, riesco – come fatto stamattina – ad uscir di casa dimenticandomi di girar la chiave della porta, ma per lo meno chiudo l’uscio. Merito di qualche robiolina fresca. E’ evidente.

Quando l’ho mangiata l’ultima volta? E chi se lo ricorda…