A volte ritornano. Si “ripropongono” come un peperone maldigerito, anche a distanza di un anno. Sono le idee di chi della rete forse ha capito poco, ma ha compreso tutto quel che di essa gli può dar fastidio. E così basta un comma – il 29 dell’articolo 1 del disegno di legge sulle intercettazioni – per tentare di dissuadere i semplici cittadini dall’esercitare un proprio diritto, quello d’opinione. Diritto fondamentalissimo, checché se ne dica invece a proposito del rango della libertà di stampa. Non scomodo qui dichiarazioni universali o Costituzioni americane. Mi affido solo al buonsenso.
«Diffamare – sostiene oggi Filippo Facci, su Libero, nel ripetere come fa da un anno che “internet non è un porto franco” – non è vietato ai giornalisti, è vietato e basta, ed è vietato su un giornale come su un murale o al bar. Ergo, è vietato in rete». Infatti. Il giornalista è querelabile, il cittadino è parimenti querelabile. Se offende. Quella, però, è una norma penale, che vale nel mondo fisico come in quello virtuale. Altra cosa è il presupposto per chiedere una rettifica: ci vuole molto meno. Basta una notizia inesatta (ed il Sabatini Colletti conferma), mica c’è bisogno di aver offeso qualcuno, per dover “rettificare”. Dover pagare 12 mila euro se non si ottempera in 48 ore, dando la medesima evidenza alla correzione rispetto al post sul proprio blog, è obiettivamente una stretta. Niente più clic sul pulsante condividi “a cuor leggero” o retweet tanto perché ci piacciono. Certo, si può star tranquilli se si è scrupolosi in ossequio al motto “male non fare, paura non avere”. Ma un freno anche al più onesto e scrupoloso viene dato. La libertà resta, ma un po’ meno.