Il no al presepe è una forma di intolleranza vestita da laicità. Laico è semmai permetterlo, consentendo anche ad altri di esprimere il loro credo o non credo.
Il no al presepe è una forma di intolleranza vestita da laicità. Laico è semmai permetterlo, consentendo anche ad altri di esprimere il loro credo o non credo.
«Solo questo è negato anche a Dio: cancellare il passato».
Agatone, tragediografo greco del V secolo avanti Cristo citato da Aristotele nell’Etica Nicomachea, c’era arrivato. La Corte di giustizia europea no. La pronuncia sul diritto all’oblio, appena emessa, è già notizia vecchia, ma ogni minuto che passa ne fa emergere la sostanziale superficialità. Il diritto alla privacy, si dirà, è sacrosanto. E magari a concordare con questa visione sono gli stessi che disinvoltamente appendono i loro panni in pubblico su Facebook o non reagiscono all’essere inseriti in qualche banca dati di buoni e cattivi pagatori. La questione però non è questa, sta invece tutta nei criteri che rendono accoglibile la richiesta di cancellazione dai motori di ricerca le informazioni sgradite. Riassunta in soldoni, la sentenza della Corte Ue numero 131/12 prevede che chiunque si senta leso da un contenuto che lo riguarda potrà chiedere non sia indicizzato da Google, Bing, Yahoo e compagnia. E questo a prescindere dal fatto che quelle informazioni sgradite siano state o meno eliminate dal sito nel quale compaiono. Si vuol castrare, pardon impedire, la ricerca. Non la pubblicazione dei contenuti. Si percepisce qualcosa di sottilmente perverso e paradossale in tutto ciò, al netto delle (pur dotte) argomentazioni giuridiche.
Le ragioni sarebbero sacrosante. Basti pensare, per capirlo, al cittadino spagnolo Mario Costeja González, che ha “provocato” con il suo caso la decisione della Corte Ue. Se si googla il suo nome escono pagine de La Vanguardia nella quale però – attenzione – non si dà notizia di costui in un articolo di giornale, in un testo frutto di selezione giornalistica, ma se ne legge in un pdf che riproduce un’inserzione del Ministero del Tesoro di un’asta di immobili. Insomma, pubblicità legale di un pignoramento che riguardava nel 1998 questo signore. Ebbene, l’informazione memorizzata da Google, tutt’altro che afferente alla sfera privata (era pubblica) oggi è considerata lesiva del diritto all’oblio del signor González. E il motore di ricerca di Mountain View dovrà rimuoverla dai risultati delle ricerche e pure dalla cache. Ovviamente, se questa è la regola, presto i gestori dei motori di ricerca – come è stato acutamente previsto – saranno sommersi da richieste e, per non sbagliare rischiando di volta in volta, daranno un bel colpo di spugna al passato (nella versione digitale) dei cittadini europei che lo vorranno. “Un popolo di santi”, non c’è che dire. Per chiunque in Europa andrà a far ricerche sui propri concittadini.
Perché ho scritto “per non sbagliare”? Perché – “saggiamente” – la Corte di giustizia si è ricordata che esiste il diritto all’informazione. Ma, in analogia a quanto accade nelle sentenze in materia di giornalismo, quel che conta è l’interesse pubblico. La questione dei “criteri” di cui accennavo sopra. Se il personaggio che chiede l’oblio è un soggetto “pubblico”, la cui figura è rilevante per ragioni di cronaca, notorietà o potere, non potrà ottenere il diritto alla cancellazione dei link che lo disturbano. Insomma, un Silvio Berlusconi – tra verità, mezze verità e pure qualche calunnia che lo riguardano – non avrebbe speranze di dare una ripulita ai risultati di Google (o di Bing) sul suo conto. Un qualsiasi signor González, invece sì. Ma cosa accadrebbe se un qualsiasi cittadino che – nella sua esistenza – ne abbia combinate di cotte e di crude, un domani assurgesse a notorietà? Se avrà ben candeggiato il proprio ieri chiedendo ai motori di ricerca la cassazione di ogni elemento sgradito, ben poco si potrà ricostruire del suo passato. E questo sarebbe conforme alla tutela dell’interesse all’informazione? Il diritto all’oblio, poi, varrà dappertutto oppure i risultati sgraditi continueranno ad apparire nella versione americana o, che ne so, ovunque fuori dalla Ue?
Un paradosso finale riguarda questo post. Dato che cita il signor González raccontando sommariamente la sua storia – ma meglio e con maggior dettaglio hanno fatto altri – il risultato pratico che avrà ottenuto è quello della smentita: una notizia data due volte. Chi non sapeva del suo pignoramento ora lo sa. Ma c’è dell’altro: siccome questo ipertesto linka le pagine in pdf, quindi la riproduzione di un archivio cartaceo (al pari di quelli online, ad esempio, de La Stampa o de l’Unità in Italia), nelle quali si legge dell’avviso pubblico di un ministero spagnolo (sic) probabilmente ne potrà essere chiesta la rimozione dai risultati di Google. Se non addirittura esso stesso esser purgato dai riferimenti sgraditi. Ma c’è una nemesi a perseguitare questo signore che si era semplicemente rivolto al proprio garante della privacy il quale ha pensato bene di coinvolgere la Corte europea: adesso il suo caso è diventato di interesse pubblico in tutta Europa. E i link sgraditi non possono essere più cancellati…
La parola Patria inizia a sostituirsi a quella di Italia. Forse perché la consideriamo solo un luogo nel quale ci ritroviamo a vivere.
Incastellamento digitale. E’ la soluzione di editori tradizionali(sti) e politici per arginare “nemici” che innovano: Amazon, Google, Facebook e tutto il web.
Ventimila. Tanti sono i “pedofili virtuali” che l’organizzazione non governativa Terre des Hommes ha preso nella rete (e dalla Rete). L’esca una bambina virtuale. Sweetie è una ragazzina di 10 anni che non esiste nella realtà. O meglio, esiste solo nel mondo virtuale. E’ stata “ingaggiata” (utilizzata sarebbe non politically correct) per rendersi disponibile a compiere atti sessuali davanti ad una webcam. E, puntualmente (purtroppo), frotte di lupi – circa ventimila da 71 Paesi in 10 settimane – si sono avventati sull’esca digitale.
Si tratta di uomini di ogni età e di varie professioni. Si dichiarano padri di famiglia, ed un migliaio tra loro sono stati identificati con indirizzo, numero di telefono e pure fotografia. Il dossier è stato consegnato alle polizie di mezzo mondo, anche se – adesso – vien da chiedersi cosa mai ne faranno. Infatti se la vittima è virtuale, il reato è reale? Problema non da poco dal punto di vista giuridico, ben oltre quello del classico dilemma degli arresti effettuati perché effetto delle reazioni ai comportamenti di un agente provocatore. Per certi versi non ci sarebbe da meravigliarsi se qualche avvocato – in caso di provvedimenti giudiziari – si rifacesse a quanto accade in Minority Report, nel quale – appunto – i “colpevoli” vengono arrestati prima ancora di compiere un delitto. O, per rimanere nel mondo di Philip K. Dick, al racconto “Il fabbricante di cappucci”. E’ che ancora una volta virtuale e reale tendono a confondersi, ponendo nuovi problemi.
A guidare la poco onorevole classifica sono gli americani (a seguire altri anglofoni: britannici e indiani). Esattamente quello stesso popolo dove il valore di un’abitazione non è determinato soltanto dalle sue condizioni, dalla posizione, dai servizi, dalla domanda e dall’offerta. Ma pure dagli orchi e maniaci sessuali vari.