Prendi un maestro in pensione. E fallo tornare in classe. Vent’anni dopo. Le aule, per certi versi, sono come quelle di allora. Con ancora la cattedra e la lavagna. In qualche scuola più “fortunata” magari c’è una Lim alla parete, altrove resiste il gesso e magari pure una carta geografica al muro, benché di geografia – quella tradizionale: politica e fisica – non se ne parla più come una volta. Il compito dell’insegnante di ritorno è quello di far scoprire il territorio e la sua storia, in senso profondo e autentico, ai ragazzini di oggi. Un’impresa impossibile o altamente complicata?

Cos’è la vivacità 2.0

Chi si aspettasse un resoconto del maestro “di una volta” pieno di sconfortate constatazioni sulla (de)generazione del virtuale può smettere di leggere. L’insegnante è letteralmente entusiasta della differenza tra gli alunni della sua ultima quinta, ed erano tutti molto “dotati” (fu una casuale e straordinaria coincidenza), e gli attuali. «Per non dire di quelli di terza: oggi sono ancora più vivaci. Non come si intendeva “vivace” un alunno vent’anni fa, che era sinonimo di irrequieto. Qui c’è prontezza e capacità di cogliere il senso delle cose».

Il territorio si è esteso

Cosa è accaduto? Prendiamo proprio la geografia. Se gli alunni di una volta erano esperti conoscitori dei vicoli e delle piazzette del paese, territori esplorati per giochi ormai dimenticati, il loro rapporto con la rappresentazione di quegli stessi spazi non era così “facile”. Nel ventunesimo secolo la prospettiva è rovesciata: i ragazzi hanno un’incredibile dimestichezza con la rappresentazione della realtà. Una mappa è qualcosa di cui si impadroniscono rapidissimamente, una dimensione “virtuale” nella quale si muovono con dimestichezza e, qui sta la sorpresa del maestro di vent’anni fa, dalla quale passano alla scoperta del reale. Senza esitazioni e con una curiosità incredibile. D’altronde non ci sono confini. È la stessa realtà, solo con un territorio in più: il presunto e preteso virtuale, che fa tutt’uno con il mondo fisico di cui è parte.

Non prima e dopo, ma: “Che nesso c’è?”

La generazione cresciuta a pane, videogame e internet è – nel confronto che ne fa l’insegnante di allora – nettamente più sveglia, ha un approccio problematico alla realtà, usa il pensiero associativo più che quello sequenziale. La forma mentis è della rete e dello schermo, orizzontale e non gerarchica, più che quella del libro, lineare e verticale. E non si può nemmeno dire che quelli di “una volta” avessero, per passare a un’altra materia, uno spiccato senso della storia. «In ogni mia classe – racconta il maestro – usavo un cartellone affisso in fondo all’aula. Lo chiamavo la striscia del tempo ed era un aiuto prezioso per far loro percepire questa dimensione». Oggi, nella stagione del “presente continuo”, i nostri piccoli contemporanei non badano troppo alla data di eventi, al verificare se sono connessi temporalmente o hanno nessi causa ed effetto. Eppure associano i fatti simili, a prescindere dall’epoca. Trovano parallelismi e legami. Agganci causali che non ricorrono al prima e a un dopo, ma al connettere ciò che ha un punto di potenziale contatto. «È un modo di pensare diverso. E per certi versi molto più “rapido” ed efficace».