«Tra venti anni – secondo Joseph Carl Robnett Licklider, professore di psicologia sperimentale e teorico dell’informatica – una qualche forma di operazione alla tastiera sarà senza dubbio insegnata all’asilo e tra quaranta anni le tastiere saranno universali, come le matite».

Parole però non di oggi, ma del maggio 1962 (ne ho parlato nel mio libro) e che – in alcune casi (tragici?) – possono ancora sembrare riferite al nostro futuro. Eppure siamo nell’era del touch, altro che delle tastiere. Vale a dire l’interfaccia forse più disintermediata di interazione con l’aldilà digitale (che poi è pure un “al di qua”). Ma mentre a casa i piccini spiaccicano impronte sugli schermi, magari senza guida alcuna, al pari di come scarabocchiavamo noi – forse nati nell’epoca di Licklider – con i pastelli sulla carta (pure da parati), nelle aule della materna quel mezzo di espressione e comunicazione spesso non è oggetto di attività di “prescrittura”. D’altronde le periferiche digitali sono demonizzate, proibite, rifiutate, sequestrate, apocalitticamente respinte. Altro che BYOD. E così i ragazzini iniziano un percorso che li vedrà un domani entrare sulle vie (digitali) del mondo non solo senza neanche saper attraversare la strada ma neanche imboccare con consapevolezza o vie pericolose o quelle, bellissime, in grado di portarli davvero lontano (e non solo a scuola).

Generazione touchscreen e il bel tempo andato

Hanna Rosin, giornalista di The Atlantic, rivista americana, ha scritto un articolo – “Generazione touchscreen” – che nella versione italiana, pubblicata da Internazionale nel numero 995 del 12 aprile scorso, aveva un sommario emblematico. «I bambini, anche molto piccoli, passano sempre più tempo con i tablet e le app. Che conseguenze avrà sul loro sviluppo? Le prime ricerche suggeriscono che giocare con l’iPad può essere istruttivo quanto leggere un libro. Ma è un’idea che molti genitori faticano ad accettare». Se è per questo non sono soli, c’è pure l’istituzione scuola. Questi piccini rischiano di rimbambirsi? Forse né più né meno che nell’uso delle varie Peppa Pig.

«I miei figli non trascorrono tanto tempo sui touch-screen – ha infatti spiegato un’insegnante americana sviluppatrice dell’app che insegna il “Montessori Letter Sounds” -Sono io a non permetterlo, abbiamo una regola che prevede di utilizzare il touch-screen solo durante il fine settimana, un’oretta al massimo, o nei lunghi spostamenti in auto, in treno e in aereo».

Il punto – sembra evidente – è quello dell’equilibrio. Patologico per un adulto vivere attaccato a un terminale, patologico per un piccino che deve crescere. Non sono un esperto di psicologia infantile, ma a naso mi illudo di comprendere che le esperienze tattili non possono essere solo quelle (per ora) senza un feedback sensoriale come lo schermo di un tablet. Ma giocare con “Puzzingo”, game per bambini dai due anni per «costruire e demolire», non è meno che destreggiarsi con le costruzioni colorate. Gli apocalittici (e i nostalgici) rammentano spesso che i giochi di strada o di cortile ci hanno permesso di crescere bene. “Oggi non ci sono più” scuotono la testa. E se ci accorgessimo che la parte ludica e relazionale si sono virtualizzate (ampliandosi a dismisura), mentre quella fisica – per tantissime ragioni, esigenze di tempo dei genitori incluse – è stata delegata alle attività sportive cui sottoponiamo i nostri piccini (e che noi non avevamo)?

“BYOD? No, grazie. Vorrei il servizio pubblico”

Anche quando gli insegnanti sono in gamba – e il loro numero dovrebbe poter aumentare ora che sono state pubblicate le liste del piano nazionale Scuola Digitale per disseminare la cultura digitale tra i docenti – anche quando i docenti sono bravi, e non ne mancano, gli ostacoli arrivano da altro.

«Dobbiamo svolgere un progetto sull’uso delle nuove tecnologie, ma abbiamo solo la LIM (lavagna interattiva multimediale) a disposizione – racconta un’insegnante di quarto anno della Primaria – mentre servirebbe un dispositivo mobile per ogni alunno, o almeno uno per ogni piccolo gruppo. Così durante un incontro con i genitori ho chiesto se qualcuno avesse la possibilità di portare in classe un proprio dispositivo, ma la maggior parte dei genitori è rimasta perplessa».

La ragione? «Quello che si usa a scuola, secondo i genitori, deve essere fornito dalla scuola». Poi magari sarebbe da chieder loro due cose. La prima: i quaderni e le penne sono forniti dalla scuola? La seconda, forse la più grave: ma a casa usano quelle, che una volta, erano chiamate le “nuove tecnologie”? «Sì, a casa lo usano – testimonia la brava maestra che aveva tentato il BYOD – Lo dimostra il fatto che abbiamo creato un blog e tutti i bambini partecipano da casa».

«Smettiamola con questa frattura casa/scuola – osserva alla fine Elisabetta Nanni – con la scuola fatta di banchi, penne, matite e carta. Altrimenti non è scuola!».

Leggere, scrivere e far di conto (digitali)

Si tratta di offrire un nuovo modello di scuola? E, se sì, quale? La voragine aperta da un dibattito su questo argomento che mi si spalanca davanti ai piedi mi atterrisce. Ma una considerazione di base forse può evitarla: anche se la si concepisce come quell’istituzione che insegna a leggere, scrivere e far di conto, ecco che si ritrova di nuovo a confrontarsi col digitale. 

La “grammatica”, come mi ha fatto notare ieri mio figlio ginnasiale, deriva dal verbo greco “grapho“, scrivere. La regola che pone, quindi, è dello scritto, non dell’orale. E’ un po’ come se i nostri antichi – gli stessi che vissero con Socrate il trauma delle nuove tecnologie (la scrittura) – avessero segnato che certe regole non dovessero considerarsi così “rigide” per l’oralità. D’altra parte siamo sempre pronti a chiudere un occhio di fronte a qualche sbavatura o sgrammaticatura quando si parla. Il punto è che la conversazione attraverso i media digitali ha natura orale (la questione è complessa né mi sbilancio in audaci elucubrazioni su seconda o terza oralità).  O, almeno, spesso così capita di percepire chiacchiera/conversazione/dialogo digitali o di riferirli come tali. Quante volte, infatti, abbiamo riferito di aver parlato con qualcuno quando, invece, abbiamo “scritto in chat” con costui/costei=  Eppure questa forma espressiva ha una sua propria grammatica, perché utilizza la scrittura “per parlare”. Chi si cura di insegnarla? E’ un campo – anche se si volesse escludere il dovere educativo all’alfabetizzazione – che si lascia sguarnito e che, pur concependo la scuola in maniera tradizionale, richiederebbe solo una cosa: di non far finta di niente.

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aggiornato il 1 aprile alle ore 22:07