Psicologo si scaglia contro l’insegnamento del pc agli under 9. Una psicotecnofobia non solo infondata, ma pure fuori tempo massimo: lo sanno già usare.
Psicologo si scaglia contro l’insegnamento del pc agli under 9. Una psicotecnofobia non solo infondata, ma pure fuori tempo massimo: lo sanno già usare.
Sherry Turkle studia i genitori distratti dallo smartphone: non si curano dei figli. La Nielsen: però fanno più soldi di quanti usano i cellulari tradizionali.
Bella, la Croce Rossa. Per una singolare coincidenza, nel metamondo un po’ fauto dei media, è la bellezza a far parlare della benemerita organizzazione. Non, purtroppo, le opere di bene come sarebbe più doveroso. Capita in Italia, dove alla festa del 2 giugno una bella crocerossina – donna però riservatissima, madre di due figli, oltre che moglie di un famoso chirurgo – ha calamitato l’attenzione del premier e, di conseguenza, del caravanserraglio mediatico italiano. Capita anche in Francia, dove invece è Adriana Karembeu, indossatrice slovacca e moglie del calciatore Christian Karembeu, a far da ambasciatrice della Croix-Rouge nella settimana di raccolta fondi.
Sono dieci anni che la bionda mannequin è in contatto con l’organizzazione transalpina, mentre dieci giorni sono stati necessari – così si racconta – per addestrare (come di solito accade per tutti) l’infermiera, con un diploma che però vale due anni di Accademia militare, a scortare la bandiera italiani ai Fori Imperiali. Che la Croce Rossa sia “donna”, almeno nei paesi latini, sembra confermarlo la piacente ragazza impegnata a parlarti (e osservarti) dall’altro lato dello schermo della Cruz Roja Española. E non è una celebrità iberica. «Mi chiedevo – commenta una nostra connazionale trapiantata a Barcellona – se in versione italiana la donna (piacevole, ma non una bellona) e la pubblicità in sè (divertente, la tipa fa le smorfie, e non sono smorfie “civettuole”) sarebbe la stessa in Italia. Ma forse anche la mia “idea” di televisione italiana è ormai distorta».
Le donne in pensione alla stessa età degli uomini. L’Italia resiste, ma alla fine desiste di fronte alla decisione della Corte di europea di giustizia fatta valere dalla commissaria Ue Viviane Reding. “Tutti” in pensione a 65 anni. D’altronde – sia permesso di aggiungere un “giustamente” – Bruxelles ha minacciato di far rimborsare i lavoratori di sesso maschile, costretti ad un più lungo periodo di lavoro rispetto alle femmine, oltre che ad un’attesa maggiore prima di andare “a riposo”. Basta guardare le statistiche dell’Istat per capire che non ci sono scuse: a 65 anni le donne italiane hanno la speranza di campare mediamente altri 21 anni, contro i 17,8 degli uomini. Eppure – per non smentire di far le cose all’italiana – applicheremo la disposizione a metà. Anzi, alla sola metà del cielo che appartiene al gruppo degli oltre tre milioni di dipendenti pubblici: 254.023 lavoratrici, per ora. Per le donne del comparto si pensava di portare il pensionamento, dal luglio 2011, a 62 anni per arrivare a gennaio 2016 all’età di 65 anni dipendenti. Oggi questo traguardo lo taglieranno entro il 2012.
Ed il resto del mondo le lavoro, quello più consistente? Non si toccherà. La ragione è stata spiegata, neanche troppo forbitamente, dal ministro del welfare Maurizio Sacconi. «Sarebbe molto più oneroso – ha detto – il settore privato è caratterizzato da una tale segmentazione da non consentire un’uguale regolamentazione previdenziale. Le donne interessate sarebbero costrette ad attendere la pensione da disoccupate». “Da disoccupate” vuol dire – allora – che il pubblico impiego è un ammortizzatore sociale, perché altrimenti le lavoratrici nella fascia tra i 60 ed i 65 sarebbero destinate alla disoccupazione? Oppure sta a significare che il lavoro pubblico ha caratteristiche tali – in termini di usura fisica, psichica e professionale – da essere “più leggero” da affrontare rispetto a quello privato?
Compri il giornale e leggi di uomini che “creano” la vita. O ci vanno molto vicino. E non è un romanzo di Aldous Huxley. Sesso e riproduzione, per te, ormai è scontato non siano la stessa cosa. Eppure le maggiori testate ci aprono l’edizione mattutina. Accendi la radio e ascolti di un robot umanoide pronto a colonizzare lo spazio. Corpo, braccia, e un marchio General Motors in bella vista per missioni “inadatte agli umani” da affrontare. Eppure il presente non è più quello di una volta. Nel senso che non lo viviamo per come ce lo aspettavamo di viverlo. Quanto meno noi, nati prima del 1969, l’anno della diretta dell’uomo sulla Luna.
E ciò ci accade non solo perché Robonaut2 non porta sul petto lo stemma della U.S. Robots, l’azienda immaginata da Isaac Asimov, bensì quello di una vettura che magari stai guidando. D’altronde sono anni che Honda ti propina il suo Asimo. Ma resti perplesso, se ci badi un po’, perché magari avviene tutto così “naturalmente”, quasi passandoci sopra. Non solo confortando qualche visione della fantascienza, ma anche smentendo narrazioni di fiction televisive consolidate come Spazio 1999: quell’anno è infatti trascorso senza che il satellite della Terra sia uscito dalla sua orbita come preconizzato dalla serie tv. Insomma, siamo ormai quasi dei tecnoindifferenti.
D’altro canto mi tornano in mente le discussioni – forse bizzarre per l’età, eravamo undicenni, ma l’Austerity (1974) era di quegli anni – tra me e un mio geniale compagno di banco. Arrivai a scuola sostenendo di aver scoperto il modo per “far andare” un’auto senza benzina. Smontavo biciclette, a quei tempi. Metter dinamo sulle ruote per recuperare energia da mandare ad un propulsore elettrico mi sembrava la grande soluzione che nessuno aveva trovato. Il mio “Eureka!” alla Archimede (disneyano) fu smentito dal mio amico con l’enunciazione non so di quale legge fisica, che lui già conosceva (ovviamente). L’attrito avrebbe dissipato quel che pensavo di recuperare.